Le democrazie tendono a reagire e non ad agire in quanto la loro complessità politica ha bisogno di un pericolo evidente ed imminente per dare consenso ad un’azione bellica. Ciò rende rilevante scenarizzare quale livello di pericolo dovrà mostrare il Califfato, come e se, per attivare la reazione delle democrazie. Obama sta negando un pericolo grave ed imminente contro l’America per evitare l’ingaggio o per almeno rinviarlo fino a che non sia possibile trovarne una modalità che preservi la sua linea di interventi solo indiretti oppure almeno fino a novembre quando ci saranno le elezioni di mid term. I sondaggi mostrano che la popolazione statunitense, mobilizzata dalla decapitazione umiliante di uno di loro, si sta spostando verso il consenso a favore dell’ingaggio, ma solo un 53% ancora gestibile per i democratici se il Califfato non farà altre azioni simili. La burocrazia imperiale è infuriata, e contraddice apertamente Obama, sia perché l’America sta perdendo la fiducia degli alleati sia perché la minaccia portabile dal Califfato, in quando organizzazione con risorse semistatuali, potrebbe diventare presto biologica e/o nucleare. In particolare, è possibile che il Califfato, se non contenuto subito, possa espandersi per germogliazione, cosa per esempio avvenuta dall’adozione della bandiera nera da parte di Boko Haram in Nigeria, fino a fare pop-up nella stessa Arabia saudita e prendere il controllo della Mecca. Pur di fronte a questi scenari, di probabilità crescente, l’Amministrazione Obama ancora tentenna, variando solo la forma dell’indecisione, cioè lasciando che la burocrazia imperiale e Kerry preparino una coalizione e facciano qualche azione sul campo, ma rinviando il momento della vera azione nella speranza che il caso resti locale e gestito da locali. Il re saudita Abdullah, in un inusuale appello, si è detto certo che la minaccia diretta e massiva contro America ed Europa sia già imminente allo scopo di forzare l’ingaggio di Obama. I sauditi hanno perso il controllo delle milizie sunnite da loro stessi facilitate, pur indirettamente, per combattere contro il regime filo-iraniano/sciita della Siria. Probabilmente non intendono rinunciare alla formazione di un cuneo sunnita nell’area mesopotamica, ma si rendono conto, come anticipato qui in uno scenario precedente, che il Califfato è strumento inadatto e, dopo l’inclusione di competenti militari irakeni ex-baathisti, pericoloso. Per questo la dichiarazione di Abdullah ha avuto anche lo scopo di dare via libera ad un accordo tra Washington e Damasco che colpisca il Califfato nell’area siriana. Ma è improbabile che il Califfato faccia l’errore di provocare l’America oltre soglia perché un tale evento implicherebbe, appunto, un attacco di reazione che eccederebbe le sue capacità di resistere. Da un lato, la direzione del Califfato ha bisogno di eccitare gli animi attraverso una profezia di vittoria totale e globale. Dall’altro, non è sprovveduta ed è più probabile che eviti, appunto, di sfidare l’America direttamente, limitandosi a decapitare e massacrare non-occidentali. Inoltre, ha certamente studiato come bin Laden sia riuscito a separare America ed Europa offrendo alla seconda (Francia) immunità nel 2002. Soprattutto, vista la riluttanza di Obama, cercherà di non fare cose che lo costringano ad invertirla, in una sorta di collaborazione di fatto. Lo scenario resta aperto in attesa o di un errore provocatorio del Califfato o di un’azione che lo induca, per esempio il corridoio forse lasciato aperto intenzionalmente da Assad in Siria per portare a contatto diretto le armi del Califfato e quelle di Israele sul Golan.