Per anni il rubricante ha sollecitato i militari occidentali, quando invitato nei loro think tank, ad avere più fiducia nella guerra aerea. La risposta è sempre stata scettica: se non si mandano soldati a terra l’efficacia della superiorità aerea è solo parziale e non permette di conseguire l’obiettivo politico della guerra. Tale argomento è realistico. Ma altri lo sono altrettanto: (a) le democrazie occidentali hanno limiti di consenso e di costo nell’ingaggiarsi in operazioni terrestri; (b) l’occidente mantiene come unica superiorità assoluta, pur sfidata e da rinnovare continuamente, quella aerospaziale; (c) la guerra aerea produce il minor dissenso nelle democrazie. Da un lato, l’investimento sulla superiorità aria-mare è già applicato dall’America, ma per un tipo di guerra e dissuasione (sostenute da un retrostante deterrente nucleare) calibrati per il teatro del Pacifico e per un nemico simmetrico quale la Cina. Dall’altro, questa configurazione dei mezzi di superiorità non è stata adattata ai casi di guerra ordinativa, cioè di azioni finalizzate a congelare conflitti, stabilizzare territori e distruggere in maniera selettiva gruppi armati che sarebbero necessarie nei teatri irakeno-siriano, libico e di tutta l’area africana settentrionale che è zona di operazioni per decine di gruppi jihadisti. Il punto: anche se la guerra solo aerea non porta al dominio di un territorio, può tuttavia limitare l’espansione di un nemico nonché indebolirlo. Ciò significa che un potenziale da sviluppare nella guerra aerea è quello di “configuratore di confini” e di “incapacitatore”. Già tale potenziale è stato utilizzato in forma di definizione di no-fly zones ed interdizione di territori. Una sua evoluzione, in particolare nel teatro irakeno-siriano, è quello di mettere un limite insuperabile all’espansione del Califfato. Possono essere riconfigurati i mezzi disponibili e le loro dottrine di impiego per aumentare le capacità dette nonché il supporto a ridosso tattico dei difensori, nel caso peshmerga curdi e militari irakeni? Certamente e desta sorpresa che le offensive del Califfato non siano state già annichilite. Ma probabilmente si tratta più di una limitazione politica, in revisione. Sul piano tecnico, invece, manca una serie di armi che potenzierebbero la guerra aerea. Esempi. Non ci sono mezzi (evoluti) di marcatura remota di nemici per targeting puntuativo. Uno jihadista che sa di essere marcato e che tutti i suoi movimenti sono tracciabili da satellite sarà più facilmente dissuadibile o eliminabile (o recrutabile). Ora le marcature sono possibili se il bersaglio usa un qualsiasi mezzo che emette frequenze. Il nemico lo sa e tale capacità mantiene l’effetto di complicare le sue comunicazioni, ma molto meno quelle di eliminarlo o limitarlo o usarlo. Ben più potente sarebbe la biomarcatura. Fantascienza? Non tanto, basterebbe cercare con atteggiamento innovativo e ri-allocando risorse di bilancio dal vecchio al nuovo. Desta, poi, perplessità la mancanza di sciami di droni robotizzati (a migliaia) sopra un territorio bersaglio nonostante la possibilità già ora di costruirli in serie. Non è compito della rubrica andare nei dettagli tecnici della materia, ma lo è quello di segnalare che la capacità di guerra aerea può essere molto migliorata e di ipotizzare che il conservatorismo militare e dell’industria della difesa siano un fattore di ritardo per tale obiettivo. Se così, va ricordato che o ai politici che governano democrazie debellicizzate si fornisce uno strumento di guerra possibile per loro oppure sarà impossibile alle democrazie stesse difendersi e difendere.