La rubrica gongola perché la previsione fatta nel 2012 di un boom dell’economia statunitense (Pil a +3,6% nel terzo trimestre) a metà 2013 si è avverata, battendo quella del Fmi (ottobre 2012). La prestazione è dovuta al rinnovo delle scorte e per questo volatile, ma è segnale di una tendenza prospettica migliore di quella attesa dai più. Il punto in questione era ed è la tenuta dell’America nel suo ruolo di locomotiva globale in una situazione dove Cina ed Eurozona germanizzata, nonché il Giappone, non saranno in grado di sostituire la crescita trainata dall’export con una più robusta dei loro mercati interni. La Cina sta tentando, ma non riesce. La Germania nemmeno tenta, imponendo anche un irrealistico assetto deflazionistico all’Eurozona, e dopo l’accordo assistenzialista tra democristiani e socialdemocratici avrà sempre più problemi di crescita interna, oltre che di sostenibilità della finanza pubblica, che bilancerà aumentando perfino di più l’export. In sintesi, Cina ed Europa hanno bisogno di un’America, unica economia al mondo in cui il Pil è fatto per più di 2/3 dai consumi interni e molto poco via esportazioni, che resti motore della domanda globale. Se ciò non succedesse il mercato mondiale imploderebbe. I dati di andamento hanno finora fatto ipotizzare che dopo la crisi del 2008 la crescita americana sarebbe stata trainata molto meno che nel passato dalla leva finanziaria, locomotore primario in quell’economia. La rubrica, però, già nel 2010 aveva osservato, e qui segnalato, che il capitalismo statunitense si stava ricostituendo esattamente come prima della crisi, cosa ovvia, ma riuscendoci, anche grazie all’impegno reflazionistico della Fed, cosa meno scontata. Quindi, mettendo dei segni meno e tempi più lunghi dovuti alla cattiva gestione dell’Amministrazione Obama, scenarizzò una ripresa trainata dalla leva finanziaria. Ma i dubbi sulle quantità dovuti al deleveraging, cioè alla minore propensione al debito ed alla riduzione dell’indebitamento privato, facevano ipotizzare un recupero tendenziale di solo 3/5 del contributo americano alla domanda globale considerato sufficiente per tenere a galla il mondo. Qui il problema. Ma nel 2012 fu chiaro che la Fed e gli attori finanziari stavano convergendo per muovere un altro tipo di leva: una bolla borsistica attraverso pompa di capitale duratura, indipendentemente dai valori reali delle aziende quotate. Così fu ripristinato un traino finanziario forte alla crescita americana che, proiettata, ora la porta alla capacità di sostenere bene la domanda globale, permettendo a Cina, Germania e Giappone, nonché all’Italia, di poter continuare a bilanciare con export la loro inefficienza economica. Ma riuscirà l’America a trasferire il tiraggio della crescita dalla bolla all’economia reale? La Fed, diversamente da quello che temono gli analisti, manterrà una politica espansiva, per esempio immettendo liquidità in altri modi se dovesse ridurre l’acquisto di titoli di debito statunitense (tapering) o alzare un po’ i tassi, per raccordare bolla e crescita reale e così consolidare la prima. Ma dovrà tollerare più inflazione, alzando non proporzionalmente i tassi, per tenere comunque gonfie le Borse. In conclusione, dipendere dalla locomotiva americana non sarà gratis perché richiederà alle nazioni dipendenti dall’export di importare inflazione o andare in crisi, se reagiranno alzando il cambio, o di darsi un modello economico efficiente capace di più crescita interna. Mondo salvo, ma Eurozona verso una nuova crisi economica o di consenso.