Perché l’Italia sta così male nell’euro: difetti dell’eurosistema o incompetenza nazionale? Il limite al deficit annuo del 3% del Pil significa una flessibilità, per l’Italia, di ben 45 miliardi che vengono spesi per finanziare spesa inutile e sprechi. Pertanto la scomodità del parametro non è dovuta ad un eurodifetto, ma ad una incompetenza dell’Italia. Ma c’è anche una scomodità imputabile all’eurosistema, grave: non è permesso sforare tale tetto per operazioni straordinarie di detassazione, per esempio 4 anni di deficit al 6% allo scopo di stimolare per via fiscale la crescita e poi ottenere più gettito pur a tasse minori, rientrando entro il parametro. Il trattato Fiscal Compact imporrà il (quasi) pareggio di bilancio annuo, per l’Italia calcolabile come deficit ammesso di circa l’1,5% del Pil. Problema? No, una flessibilità di 22 miliardi è abbondante (se corredata da deroghe in caso di crisi). Al riguardo del limite al 60% del Pil per il debito c’è più un problema di eurosistema in relazione al nuovo impegno preso dall’Italia di ridurre dal 2015 il debito, ora al 130% del Pil, al 60% in 20 anni, 1/20 all’anno. Da un lato, il taglio di tasse e spesa a livello nazionale permetterebbe di coprire tale cifra aumentando il denominatore, cioè il Pil, via crescita. Dall’altro, tale parametratura è troppo stringente per l’Italia (ed altri) e comporta una grave scomodità in forma di rischio di deflazione. Il più grande difetto dell’eurosistema è che la Bce non può garantire i debiti nazionali. Ma se ogni stato resta entro il pareggio di bilancio tale difetto è annullato dall’affidabilità di un debito che non aumenta (se c’è crescita) rendendo il difetto stesso gestibile, pur l’area monetaria in configurazione sub-ottimale. Non è invece gestibile l’applicazione dell’euro ad economie poco industrializzate, quali Spagna, Grecia e Portogallo e per queste sarebbe necessaria una robusta compensazione per evitare la catastrofica combinazione “moneta forte/economia debole”. Ma non è questo un problema per l’Italia: è seconda di poco per industrializzazione alla Germania. In sintesi, l’Italia potrebbe stare comoda dentro l’euro se la sua politica fosse capace di cambiare il modello ed imporre una deroga speciale ai suoi impegni di rientro del debito, in particolare: (a) taglio strutturale della spesa pubblica e delle tasse per almeno 4 punti di Pil (60 miliardi) in quattro anni; (b) richiesta di attivare nell’Eurozona una procedura di extradeficit (fino al 6% del Pil) a termine, e sotto controllo della Commissione, per la stimolazione fiscale della crescita, nonché richiesta di accedere a tale programma, in sincronia con il punto precedente; (c) impegno alla riduzione nazionale del debito via finanziarizzazione e vendita di patrimonio fino a 500 miliardi entro un decennio e solo dopo questo applicazione del Fiscal Compact, portando la soglia del debito per tutti dal 60 all’80% del Pil. Questa combinazione di azioni nazionali e di pressione negoziale nei confronti dell’eurosistema è fattibile. Per questo motivo la rubrica ritiene sbagliati sia l’europeismo acritico sia gli emotivi appelli ad uscire dall’euro e raccomanda una strategia di costruzione del consenso europeo per le soluzioni qui proposte. Qualora non piacessero, si invitano comunque le fonti di opinione pubblica a spiegare che nell’euro l’Italia sta scomoda più per colpa sua che per i difetti, pur notevoli, dell’eurosistema. L’euro è selettivo: chi è capace diventa ricco, chi non lo è diviene povero, questo il più vero e spietato parametro che l’Italia deve considerare con altrettanta spietatezza autoriflessiva.