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Carlo Pelanda: 2013-9-10Il Foglio

2013-9-10

10/9/2013

L’intervento americano in Siria persegue un megavantaggio strategico

La rubrica è in disaccordo con chi ritiene irrazionale, non necessario o troppo rischioso un intervento statunitense in Siria. Il fatto che l’Amministrazione Obama stia dimostrando leggerezza non cambia il requisito che l’America debba trovare un modo per “esserci” come potenza dirimente nel teatro siriano. L’area Siria-Iraq, infatti, è il fronte principale del conflitto tra sunniti-sauditi e sciiti-iraniani. Stare dentro questo conflitto, prendendo le parti dell’uno o dell’altro non è conveniente. Stare fuori significa diventare irrilevanti. Ingaggiarsi come potenza dirimente, che favorisce l’una o l’altra parte a seconda delle convenienze, sarebbe l’opzione strategica di miglior vantaggio: costringerebbe sia iraniani sia sauditi a corteggiare Washington. Pertanto l’atto di forza avrebbe uno scopo politico preciso, rendendolo razionale. L’analisi strategica di Parigi appare simile. Per inciso, la rubrica spesso irride il pensiero strategico francese non perché sbagli analisi, ma perché persegue scopi che eccedono i mezzi disponibili: è razionale che la Francia si ingaggi nel teatro per ottenere influenza, improbabile che la ottenga, anche se l’incidente parlamentare che ha tolto il Regno Unito dal gioco le offre una chance insperata di partenariato con l’America. La complicazione che sta frenando l’azione militare statunitense riguarda la configurazione finale della Siria. Lo scenario migliore sarebbe quello di congelare il conflitto cristallizzandolo in un modello simil-bosniaco di equilibrio del terrore: (a) gli aluiti di Assad si tengono l’area più vicina alla costa ed al Libano, in continuità territoriale con l’area dominata da Hezbollah (Libano meridionale); (b) i sunniti si prendono gli spazi nel territorio residuo interno; (c) i curdi a nord. Lasciare latente la guerra in Siria, congelandola invece di chiuderla, è interesse dell’America perché manterrebbe allo stesso tempo sotto controllo (evitando contagi ad Iraq e Libano) e attivo il conflitto tra sunniti e sciiti, valorizzando così il ruolo di potenza dirimente. Ruolo a cui Russia, Cina, Francia, nonché Turchia, non possono aspirare perché parti in causa sull’uno o altro fronte. Ma c’è il problema che in tale opzione potrebbe emergere un’enclave jihadista spinosa. Il secondo problema è la divergenza potenziale di interessi con Parigi: questa vuole rimuovere Assad mentre l’America deve dargli una botta, ma senza scalzarlo, per segnalarsi, appunto, come potere dirimente. Quindi l’azione sarà precisata – le gassificazioni solo una scusa per il consenso dei benpensanti - quando sarà risolto questo problema e quello di evitare un minicaliffato in Siria. L’indecisione di Obama è un fattore di incertezza, ma la convergenza dei repubblicani la attutisce. Solo mossa nominale perché quando un presidente americano, discutibile che sia, si ingaggia la nazione comunque segue? Forse, ma probabilmente sotto c’è un’analisi interventista, non troppo dissimile da quella qui fatta, della burocrazia imperiale (non-militare) per lo più repubblicana. Il rischio? Un non esserci comporterebbe l’incapacità di regolare il conflitto sunnita-sciita e questo senza controllo promette una destabilizzazione globale. Pertanto l’esserci è un rischio minore. L’Italia? A fianco dell’America con sostegni indiretti sostanziali, ma restando fuori dal conflitto perché il suo interesse strategico nel Mediterraneo è parlare e fare affari con tutti. Sia l’ingaggio diretto sia una rottura con l’America danneggerebbero il nostro interesse nazionale.

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