L’Economist sottolinea che la globalizzazione ha prodotto ricchezza e non impoverimento di massa. Ma potrà continuare a farlo? Per rispondere bisogna chiarire quali fattori hanno dato alla globalizzazione tale effetto. Tra i tanti, cinque sono i principali: (a) l’evoluzione tecnologica che dai primi anni ‘80 ha permesso la circolazione mondiale rapida di informazioni, denaro, merci e persone; (b) la svolta geopolitica che ha fatto decidere alle èlite cinesi, nel 1978, di preservare il dominio del Partito comunista e di combattere l’Impero statunitense attraverso strumenti di ricchezza e di mercato aperto; (c) negli anni ’80 e ‘90 il risparmio cumulato nell’area occidentale dava poca remunerazione nominale per le politiche disinflazionistiche di allora e cercò profitti maggiori nelle aree emergenti; (d) la povertà divenne un fattore competitivo che favorì la delocalizzazione delle produzioni, e relativi investimenti, nelle aree a minor costo, modernizzandole rapidamente; (e) il mercato statunitense restò aperto alle importazioni da tutto il mondo nonostante un impatto impoverente a causa della competizione per costo. Durante la Guerra fredda (1945 – 1989) l’Impero americano finanziò il consenso pro-occidentale nelle nazioni alleate permettendo il “commercio asimmetrico”, cioè accettando di importare senza pretendere reciprocità. Così gli alleati poterono allo stesso tempo massimizzare l’export e proteggere i loro mercati interni. Tale architettura di assistenzialismo strategico rese ricchi gli alleati, ma costò circa l’1,5% all’anno di Pil all’America. Già nel 1973 Kissinger tentò di ridurre tale costo, ma senza successo perché Germania e Giappone risposero che la liberalizzazione interna necessaria per dipendere meno dall’export avrebbe generato rivolte. Negli anni ’90 le nuove nazioni emergenti adottarono lo stesso modello export-led che basava la crescita sulla propensione al consumo degli americani. Così la locomotiva statunitense si trovò a tirare tutti i vagoni del mondo. Questi crebbero a razzo, in particolare grazie al fattore d) detto sopra. Ma poi la locomotiva americana esplose per sovraccarico nel 2008. Nel futuro tirerà ancora, ma a mezza forza. Il risparmio occidentale, in parte distrutto dalla crisi, non va più nelle aree emergenti e alimenta di meno gli investimenti. Per questo la Cina e gli altri emergenti dovranno ridurre la dipendenza dall’export aumentando la crescita per consumi interni. Ma sarà un processo lento, difficile ed incerto, per la fragilità strutturale di tutti questi, che non farà crescere la loro ricchezza durante la transizione. Tale fenomeno colpirà anche gli emersi esportatori. In sintesi, i motori che spinsero la “globalizzazione 1” si sono esauriti e non si vedono quelli della “globalizzazione 2”. Tre esiti possibili: (1) ri-adattamento del sistema ad un minore traino della locomotiva americana con bilanciamenti inflazionistici del gap esportativo; (2) rottura nazional-protezionista del mercato mondiale; (3) frammentazione in blocchi regionali con compensazione del minor export globale attraverso l’incremento di quello regionale spinto da azioni imperiali di ciascuna nazione leader del blocco stesso. Al momento è visibile l’avvio delle tendenze 2) e 3) perché l’opzione 1) è praticata da America e Giappone, ma non dall’Eurozona e quindi le manca scala. Questo il luogo del problema e della soluzione per ripristinare la speranza di un capitalismo di massa globale.