In materia di possibile “guerra valutaria”, cioè di svalutazione competitiva di dollaro e yen, nonché yuan, a danno dell’euro, la rubrica individua una vulnerabilità di fondo nel pensiero economico europeo prevalente che poi impedisce una strategia di difesa. Tale pensiero vieta la contro-svalutazione in nome della priorità della stabilità monetaria. Il rubricante è più che d’accordo sul fatto che, in condizioni normali, bisogna minimizzare l’inflazione, tipico prodotto delle azioni svalutative, perché è un cancro. Ma l’Eurozona non è in condizioni normali: America, Giappone e Cina non hanno alcuno scrupolo nel svalutare per pompare l’export e drogare il mercato finanziario affinché produca bolle effimere che stimolino l’espansione economica nel breve termine. Quale dovrebbe essere la giusta risposta europea, considerando che se la svalutazione delle altre monete dovesse continuare, allora l’Eurozona subirebbe un grave danno competitivo sul piano dell’export che è l’unico settore economico in grado di bilanciare la decrescita o stagnazione nei suoi mercati interni, certamente nel 2013, compreso quello tedesco? Sulla stampa continentale e nelle comunicazioni della componente tedesca della Bce, nonché del governo di Berlino, prevalgono pareri di autorevoli tecnici e ricercatori che non solo rifiutano la contro-svalutazione, ma anche, quasi con lirismo sulla stampa italiana, demonizzano chi invoca soluzioni svalutative. Sono costoro, tuttavia, criticabili per pensiero limitato ed irrealismo. Propongono, infatti, di cadere in una trappola del cambio senza reagire e di accettare un aumento della disoccupazione piuttosto che un minimo rischio di inflazione. Il rubricante, in realtà, non vuole la contro-svalutazione come leva sistematica di competitività, ma per costringere gli attori ad arrivare ad un accordo valutario internazionale, almeno tra dollaro ed euro, che ponga limiti alle oscillazioni di cambio. Intende, cioè, la contro-svalutazione come azione dissuasiva per ottenere un risultato politico. Se l’Eurozona tirasse giù il cambio di brutto, Cina, Giappone ed America avrebbero due scelte: o svalutare di più o cercare un accordo. Nella prima opzione rischierebbero incidenti fatali nel ciclo finanziario nazionale. Poiché c’è un limite di utilità nei giochi svalutativi, allora è elevata la probabilità che una mossa determinata dell’Eurozona, pilotata dalla Bce, costringerebbe tutti all’accordo di stabilizzazione. Il punto: la priorità di evitare l’inflazione deve essere combinata con una strategia (geo)politica per non cadere in una trappola che poi porterebbe alla deflazione. Tale considerazione pratica porta a quella accademica che il pensiero economico deve ibridarsi con quello geopolitico per individuare soluzioni di bilanciamento degli squilibri internazionali e non pretendere di restare chiuso in se. Ma mancano in Europa scuole universitarie con tale impostazione, pur parecchi i think tank dove studi politici ed economici vengono fusi, anche se spesso con metodi troppo artigianali, per applicazioni di scenario. Per tale motivo il rubricante ha recentemente accettato l’invito a dirigere il Dottorato di ricerca in “Geopolitica economica”, pare il primo al mondo con questa denominazione disciplinare, codificata da Carlo Jean e Paolo Savona nella tradizione della scuola del realismo politico italiano, presso l’Università G. Marconi, Roma. Progetto? Sostituire con il realismo e l’audacia cognitiva il distruttivo e costipato idealismo economico.