Ecopragmatismo. La rubrica desidera promuoverlo come nuovo criterio di politica ambientale e lo segnala alle delegazioni europee che in questa settimana parteciperanno all’ecosummit di Doha. Finora si è tentato di intervenire sulle fonti del cambiamento climatico invece di rendere gli insediamenti umani ed i biosistemi meno vulnerabili al cambiamento stesso. Fin dai primi anni ’80 il rubricante ha cercato di integrare l’analisi dei rischi (probabilità dell’evento e del danno ) con quella di vulnerabilità (resistenza di un sistema ad un evento) mostrando che la riduzione della vulnerabilità implica quella del danno atteso e ciò rende meno significativo l’evento (Disaster and Sociosystemic Vulnerability, DRC, 1981). Infatti è irrilevante che il pianeta cambi, entro certe soglie di variazione, se i sistemi antropici potranno operare comunque. Ma tale impostazione fu sempre rifiutata dagli ambientalisti che deificano la Natura e da quelli che vedono nell’ambientalismo uno strumento per sconfiggere il capitalismo. Costoro puntavano e puntano ad evitare l’evento costringendo il sistema antropico ad adeguarsi ai limiti naturali e non a ridurre la vulnerabilità all’evento stesso. Da questa analisi incompleta nacque l’idea che per prevenire catastrofi ambientali bastava abbattere le emissioni serra. Ma tale abbattimento, se troppo rapido, pregiudicherebbe lo sviluppo globale, scatenando un conflitto tra sicurezza ambientale e lavoro, e non fermerebbe comunque i cambiamenti planetari per altri fattori. Da un lato, una graduale riduzione delle emissioni è necessaria per la qualità dell’aria. Dall’altro, la priorità è il minimizzare l’ecovulnerabilità affinché le attività umane restino operative anche in presenza di cambiamenti ambientali estremi ed imprevisti, quali desertificazione e alluvioni, caldo e freddo, ecc. L’ecometodo “Kyoto” corrente, oggetto di sviluppo a Doha, si affida al solo taglio delle emissioni. Così si crea un mito: puoi stare tranquillo nella tua casetta senza doverla innovare, basta che i cattivi taglino le emissioni. Pericoloso. Se si deriva uno scenario si troverà che tra un secolo ci potremmo trovare in una situazione di disastro ambientale non contenuto perché nei decenni precedenti si è puntato a soluzioni irrealistiche (conflitto tra ambiente e sviluppo o soluzioni troppo incomplete) senza ridurre l’ecovulnerabilità. Lo scenario, invece, derivabile dalla messa in priorità della vulnerabilità rende probabile che tra un secolo avremo città climatizzate, infrastrutture viabili anche in caso di diluvio, cicli artificiali dell’acqua potabile, piante rigenetizzate per contrastare i deserti o per resistere alle piogge acide, ecc. La critica a questa impostazione è che costerà tantissimo. La risposta è che, invece, porterà ipersviluppo tecnologico, cioè che sarà un’ecopolitica non solo alleata del lavoro, ma anche stimolativa di una rivoluzione tecnologica di portata ben maggiore di quella spinta dall’attuale e timidina “economia verde”: nuovi materiali, megamacchine robotizzate, una nuova tecnosuperficie sul pianeta finalmente indipendente da esso. Realistico? Da qualche anno sono visibili nel mondo esempi di città che riducono la loro vulnerabilità e l’ecopragmatismo sta finalmente spuntando. Ora si tratta di teorizzarlo meglio, chiarendo la possibilità di una nuova ecologia artificiale che renda i sistemi antropici il più possibile indipendenti dalle variazioni ambientali. Poi, tra qualche secolo, usciremo dal pianeta creando nuovi esohabitat anche grazie all’esperienza artificialista così maturata.