In Cina i segnali di implosione economica e di conflitto politico al vertice stanno diventando sempre più evidenti. Annunciano una crisi destabilizzante o solo passeggera? L’economia cinese cresce grazie all’export e agli investimenti esteri diretti con minima capacità di crescita propria. Il boom continuo ventennale ha favorito investimenti, in particolare immobiliari, calibrati su una forte crescita costante e ciò ha creato un rischio di sovracapacità. La recessione in Europa e la ripresa lenta in America stanno riducendo l’export cinese. La crisi finanziaria rende disponibili meno investimenti. Il rallentamento della crescita cinese è più marcato di quello registrato dai dati ufficiali e tende ad intaccare la fiducia di massa sulla crescita futura. Lo si deriva dall’osservazione di una crescente fuga di capitali cinesi all’estero. Se la sovracapacità si attualizza in forma di impossibilità per imprenditori e sviluppatori immobiliari di ripagare i debiti, allora la crisi bancaria, già latente, diventerà manifesta. Non ci sono dati affidabili, ma il problema è visibile e crescente. Sul lato della crisi politica si osserva che il meccanismo di consenso che dovrebbe portare ad un ricambio fluido di 7 componenti su 9 del centro di comando del sistema (Comitato permanente dell’ufficio politico del partito comunista) e Xi Jinping alla presidenza di questo nell’autunno del 2012 si è inceppato. Almeno tre posizioni sono ancora contese da circa una quindicina di potenti, tra cui un rimarchevole leader dei servizi segreti quale Meng Janzhu. L’accordo sembra non riuscire a chiudersi con le buone maniere. Quelle cattive, nella tradizione delle lotte di potere in Cina, implicano l’attivazione di sommosse popolari, cioè il confronto di forza nelle strade. E ci sono segni precursori di tale eventualità. Succederà? L’implosione economica avverrà combinandosi con la crisi politica, così innescando una spirale di destabilizzazione sistemica? L’establishment attuale ha dato un segnale dissuasivo forte, smontando con violenza la mobilitazione montata, per esempio, da Bo Xilai, affinché ciò non avvenga. E tale establishment, composto dai leder attuali che hanno deciso di trasmettere pacificamente il potere (non tutto) per dare continuità perenne al partito dimostrando l’inutilità della democrazia per rendere non violento il ricambio politico, ha forza sufficiente per tenere sotto controllo il processo. Poiché tutto il globo andrebbe in depressione duratura se l’economia cinese saltasse, certamente vi sarebbe un ripristino degli investimenti esterni se fosse necessario. L’eventuale crisi bancaria sarebbe contenibile impiegando le riserve del fondo sovrano. Le tensioni sociali indotte dalla contrazione economica sono gestibili dall’enorme apparato di polizia interna. In sintesi, non ci sono ancora le condizioni di implosione e destabilizzazione. Ma l’esercito, anche stimolato dalla decisione statunitense di avviare una strategia di contenimento dell’espansione cinese, si sta muovendo con nuova autonomia dalla politica e sta preparando le condizioni per guidare un futuro progetto nazionalista. Questa forza destabilizzerà il modello attuale per prendere il potere, tra qualche anno, nel frattempo indebolendo i concorrenti e prendendo nascostamente posizioni. Tale ipotesi comporta già oggi revisioni delle strategie occidentali, finanziarie e politiche, nei confronti della Cina.