Nel 2008 il prof. Giulio Sapelli mi disse che senza una nuova Teoria del rischio, capace di precisarlo in dettaglio, non ci sarebbe stata più finanza. Risposi che non era possibile e che non si poteva far altro che gestire il rischio trasferendolo. Rimasi insoddisfatto della mia risposta perché capivo il punto di Giulio: il trasferimento del rischio senza precisazione puntuativa, oggetto per oggetto, della sua entità rende l’economia finanziarizzata immorale perché, alla fine, scarica la perdita sui più deboli. Per lui, cattolico, o l’economia è morale, al servizio della persona, o non può essere. Io, non credente, penso in modo affine: senza una capacità di limitare/compensare le perdite la finanziarizzazione dell’economia che rende il capitale abbondante e il capitalismo di massa – quindi buono e propulsivo – non sarebbe possibile. Per questo ho cercato una risposta migliore. Dopo mesi di pensamenti confermo che non possiamo migliorare la Teoria del rischio. Ma che possiamo usare, ad integrazione, quella della vulnerabilità per risolvere il problema.
L’analisi del rischio cerca di determinare in dettaglio la probabilità di un evento combinato con il danno atteso. Quella di vulnerabilità calcola, a cornice, il caso peggiore e predispone il sistema a reggerlo. La prima implica un enorme capacità di precisazione. Ma tutti i tentativi di eliminare l’incertezza, per esempio il programma del Circolo di Vienna e quello positivista nel primo ‘900, non solo sono falliti, ma hanno generato la prova che la certezza è impossibile. Questo risultato della filosofia, per lo più in tedesco, ha fatto parlare inglese, pragmatismo, all’economia: se la certezza è impossibile l’importante è dare un prezzo all’incertezza per scambiarla. Questa soluzione permette la gestione del rischio, ma, appunto, a scapito della stabilità del sistema. Cosa fare? Prendere atto che il sistema è vulnerabile alla crisi e non cercare di renderlo invulnerabile. Se così, si tratta di costruire una funzione di gestione della vulnerabilità sistemica che assorba l’attualizzazione dei rischi, cioè di trasferire alla Teoria della vulnerabilità ciò che quella del rischio non può fare. Tale soluzione è in atto nella realtà. Ma senza esplicitazione restano vaghe le sue applicazioni, per esempio le soglie di stabilità dei sistemi, il giusto rapporto tra capitale di riserva e di impiego, la configurazione e scala del prestatore (globale) di ultima istanza, ecc. La risposta, in sintesi, è: non abbiamo bisogno di una nuova Teoria del rischio, ma di una nuova della vulnerabilità dei sistemi con cui compensare i gap della prima. Giulio?