Era scontato il no di Pechino alla pressione americana per svalutare lo yuan e così ridurre la competitività delle sue esportazioni. Ma ha stupito la campagna stampa orchestrata dal governo cinese per argomentarlo. Contiene tre messaggi contradditori: (a) minaccioso, dovete riconoscerci lo status di potenza globale di pari diritto e quindi non osate imporci qualcosa; (b) di insolita enfasi tecnica, voi americani sbagliate sul piano scientifico nel chiederci la rivalutazione; (c) piagnucoloso, se ce la imponete rischiate di farci saltare. Quello di mezzo può essere usato a rafforzamento degli altri due e la loro compresenza segnala che ci deve essere un dare ed un avere. Quale, quando? La formula usata nel linguaggio formale non lo chiarisce: “per ora non possiamo, ci spiace, ma prima o poi lo faremo”. Quindi bisogna cercare di capirlo dai segnali indiretti che il governo cinese sta lanciando. Tra quelli del primo tipo il più illuminante connette la decisione americana di liberalizzare la moneta nel 1971 con quella analoga che dovrebbe fare la Cina: “gli Usa lo fecero solo dopo essere diventati potenza globale, lo stesso farà la Cina, con pari diritto”. Significa: “2020”. Sul piano tecnico tale analisi è demenziale, ma il messaggio politico è molto chiaro: salvafaccia verso l’interno. Il secondo punta a dimostrare la pericolosità tecnica delle rivalutazioni. L’aver forzato il Giappone nel 1986 a rivalutare lo yen per gli stessi motivi ha poi causato la bolla e la conseguente decennale depressione nipponica con danno globale. Se fate crescere di meno la Cina poi anche voi americani perderete export verso di noi. Infine i messaggi piagnucolosi: solo l’alta crescita aiutata dalla svalutazione competitiva può salvarci dalla catastrofe in una fase di transizione dove i disoccupati sono decine di milioni, il reddito medio solo di $950 e crescente la distanza tra ricchi e poveri, banche di fatto insolventi. Condito da un ricordo di lealtà: “nel 1997 lasciammo lo yuan ancorato al dollaro altissimo per evitare svalutazioni a catena”. Qui c’è il bandolo. Probabilmente la nuova leadership cinese (Hu Jintao), fresca di potere, si trova in guai veramente seri e chiede agli americani di lasciarli respirare un po’ per evitare rivolte o un golpe, ma senza voler perdere la faccia. Quindi il segnale sembra: se ci lasciate due anni poi rivaluteremo. Ma a Bush serve subito per soddisfare l’elettorato protezionista entro il 2004 e questi lo sanno. Allora? Evidentemente dovranno dargli qualcosa di altro in cambio: la prima occasione sarà la non opposizione cinese in sede Onu alla risoluzione Usa sull’Iraq. Poker o scacchi?