Vittofuturologia. Mucca pazza, afta epizootica, carni cariche di antibiotici e di ormoni, frutta e verdura contaminate da agenti chimici, ecc., sono segnali di una crescente difficoltà nel conciliare i requisiti industriali di produzione degli alimenti con quelli della loro sicurezza. Chi propone di risolvere questo problema tornando a forme meno intensive di produzione alimentare non considera il fatto che tra pochi anni bisognerà sfamare, nel pianeta, più persone e a prezzi accessibili. L’industrializzazione della produzione del cibo è una tendenza irreversibile. Dobbiamo chiederci se tale obbiettivo potrà essere raggiunto con le tecnologie zootecniche ed agricole attuali o se sarà necessario un cambiamento radicale. Il secondo appare sempre più razionale in base alla decrescente sostenibilità del metodo, per esempio, degli allevamenti intensivi. Questi richiedono la concentrazione di grandi numeri di animali fornitori di carne e di pomparli con chimici, antibiotici, ormoni e foraggi speciali. Ciò comporta un aumento dei rischi epidemiologici sia per le bestie sia per gli uomini. Quindi dei costi laterali dovuti ad incidenti o agli investimenti necessari per prevenirli. In sintesi, un tale modo di industrializzare la produzione del cibo appare economicamente ed ecologicamente inefficiente. Ci sono alternative?
La prima è quella di rinforzare geneticamente l’animale per adattarlo meglio al ciclo di allevamento intensivo. E’ un’opzione in continuità con le tecniche tradizionali di incrocio selettivo. Basterebbe ampliarle con la potenza (futura) dell’ingegneria genetica. In effetti potremo avere, per dire, bovini superimmuni, con gambe corte – non devono pascolare e occupare troppo spazio – e con carni meno grasse. Tale tendenza è in atto. Ma perché dovremmo confezionare un animale intero quando ne mangiamo solo una parte? Sarebbe più efficiente far crescere solo la bistecca senza il manzo. La bioingegneria capace di fare la prima cosa potrà praticare anche questa seconda opzione. Che potrebbe apparire bizzarra, ora. Ma non lo è se si considera il problema di come dare tot chili di proteine al mese a bassi costo ed impatto ambientale, in piena sicurezza, a venti miliardi di persone nei prossimi decenni. Immaginiamo: una biomassa proteica cresce in una scatola alimentata da tubi che forniscono nutrienti, entro un controllo totale biochimico, senza escrementi da trattare, il tutto a circuito chiuso. Tali cubi di pura ciccia vengono impacchettati e vanno al negozio, in forma di carne bianca, rossa, già naturalmente salata o meno, speziata, dura, molle, quello che volete. Ad un costo di un euro al chilo piuttosto che dieci. Questa futuribile tecnologia dei “vegemali” (vegemals) risolverebbe il problema di efficienza e sicurezza alimentare. Fa schifo? A parte che potrà essere roba gustosa, mi sembra più stomachevole costringere alle malattie, torture e macellazioni esseri viventi e coscienti solo perché siamo abitudinari e poco innovativi