Salvare Venezia non è solo un dovere civile, ma anche un’occasione di apprendimento per il futuro. Gli ecoscenari, pur ancora ancora controversi, stanno convergendo verso l’ipotesi che il nostro paese, entro 50 anni, sarà esposto al rischio di innalzamento del livello del mare dovuto all’aumento globale della temperatura. Che, oltre a tropicalizzare l’Italia settentrionale e a desertificare quella meridionale, tenderà a sommergere le aree costiere e ad impaludare le pianure restrostanti. Non è ancora possibile inquadrare con precisione l’intensità e i tempi di sviluppo del fenomeno in atto, ma è certo che il problema ci sarà. Il risolverlo implica il ridisegno complessivo del territorio nazionale per renderlo indipendente dalle variazioni ambientali in funzione dell’esercizio efficiente delle attività umane. L’alternativa di riallocare le popolazioni in luoghi più sicuri, lasciando che la natura faccia il suo corso, non sarà praticabile. Un territorio abitato è un valore, oltre che antropologico, finanziario. Se si muovono le popolazioni tale valore non viene trasferito con loro, ma distrutto. In sintesi, le soluzioni riallocative comportano un impatto deflazionistico tale da renderle opzioni economicamente catastrofiche. E proprio tale criterio (capitale territoriale o t-economy) rende razionale anche una spesa di notevole entità per mantenere l’abitabilità di una zona in cui si è storicamente cumulato un valore. Ciò significa che nei prossimi decenni l’Italia dovrà essere ridisegnata: dighe, magari in forma di turisticamente attraenti arcipelaghi costieri, ricanalizzazione di tutte le acque, sia per contenerle sia per farle arrivare dove non pioverà, e mille altre iniziative sintetizzabili entro una nuova disciplina: ecologia artificiale. Che la Serenessima ha attuato per secoli: la laguna non è il prodotto di un’ecologia naturale, ma di una continua ingegneria di artificializzazione del territorio per difenderne il valore (difesa e porto). I delta dei fiumi sono stati spostati per non caricare la laguna di sedimenti che avrebbero interrato Venezia (come accadde a Pisa). Ma ciò ha eroso i fondali. Imponendo altre ingegnerie di correzione. Da qualche decennio compromesse dall’abbassamento del terreno a causa del prelievo idrico per usi industriali. Così Venezia non ha più difese contro l’acqua alta, oggi. Domani, con l’innalzamento del mare, andrà sotto. Tuttavia è pronto da anni un intelligente progetto (Mose) di dighe mobili che può salvare Venezia e anche lasciarla operare come porto attivo. Chi lo blocca (verdi e sinistra locali, inefficienza del governo nazionale) sta, oltre che distruggendo il valore economico di Venezia, ritardando due esperimenti di utilità nazionale per il futuro: (a) come rappresentare e gestire la complessità di un’ecosistema per dominarlo; (b) quali sono le nuove formule istituzionali per governare la manutenzione continua dei territori artificializzati. E’ un motivo serenissimo per unirsi ai veneziani che protestano.