Con il passaggio a Forze Armate su base professionale l’Italia ha certamente aumentato la capacità di esportare sicurezza. E quindi di importare vantaggi. Per esempio, solo l’aver mandato pochi aerei e navi contro l’Iraq, nel 1990-91, ci ha permesso di evitare la tassa per il servizio bellico americano che ha permesso di mantenere il controllo sulle fonti petrolifere. Mentre Germania e Giappone, senza truppe sul fronte, hanno dovuto versare l’equivalente in moneta sonante all’Impero. Risparmiammo circa quattromila miliardi. Non male. Ma se avessimo avuto una fanteria in prima linea, avremmo ottenuto anche del profitto. Per esempio, una quota a favore di imprese italiane nella ricostruzione del Kuwait. Andata ad altri perchè avevano rischiato più sangue. Noi non conferimmo tale risorsa perchè, oltre a non possedere i mezzi tecnici, non potevamo permetterci di perdere neanche un giovane di leva e di avere una mobilitazione delle madri e dintorni. Più in generale, non è economicamente efficiente mettere a rischio un giovane studente costato dai duecento ai trecento milioni di spesa educativa e poco addestrato. Per questo motivo tutte le nazioni ricche sono passate dalla coscrizione obbligatoria ai sistemi militari professionali. Attraggono persone provenienti dalle sacche di povertà a cui viene offerto un lavoro onorevole in cambio della disponibilità ad addestrarsi a puntino e a giocarsi la vita. Questa forma volontaria del "contratto di guerra" riduce il problema del consenso sociale all’impegno diretto di truppe in situazioni dove è inevitabile un certo numero di perdite. In sintesi, dopo decenni di debellicizzazione totale, l’Italia potrà ampliare l’uso dello strumento militare per cercare vantaggi geopolitici. E’ un primo passo di riarmo. Ma per renderlo significativo ce ne vuole un secondo.
Da decenni spendiamo solo l’1% del Pil per la difesa ed è ovvio che i mezzi militari risultino insufficienti ed arretrati. Tale problema si risolve, a cornice, solo portando il bilancio militare almeno vicino al 3%. E molti ritengono che tale cifra – oltre i 60mila miliardi annui – sia insostenibile. In realtà, un sistema militare diviene una passività solo se non lo si sa far rendere. Un tipo di remuneratività indiretta è quella detta sopra. Ma va sostenuta con una diretta se no il conto economico non torna: (ri)costruire e favorire la nascita di un’industria militare nazionale che conquisti l’eccellenza mondiale in almeno qualche settore critico e il cui contenuto di tecnologia sia tale da favorire, per spin-off, la competitività del mercato civile nazionale. Con tale seconda gamba la spesa militare diventerebbe una fonte di profitto sistemico e, pertanto, potrebbe crescere ai livelli adeguati detti. Ma non si vede l’ombra di un tale piano. Con la complicazione di accettare una europeizzazione nominalistica della difesa che di fatto è un regalo all’industria francese e tedesca. Il riarmo italiano sarà realmente "professionale" solo quando finirà il dilettantismo politico nella definizione dell’interese nazionale.