Non è del tutto vero che la relazione semestrale di Alan Greenspan al Congresso sia stata priva di novità come scritto nella maggior parte dei commenti. Certo, il dato più rilevante nell’immediato è che diminuisce la probabilità di un rialzo dei tassi del dollaro il prossimo 22 agosto dalla già elevata quota del 6,5%. Cosa che ha dato il via ad un minirally estivo nelle Borse e nell’area dei titoli/obbligazioni che erano in stallo. Ma questo aspetto gradevole di breve periodo ha coperto alcuni nuovi messaggi allarmanti di prospettiva.
Anche se nascosti tra le righe, ci sono due segnali pesanti al sistema politico statunitense: (a) non usate l’enorme surplus del bilancio statale né per ridurre le tasse (repubblicani) né per aumentare la spesa pubblica (democratici); (b) l’inflazione nel 2001 sarà più alta di quella nel 1999 soprattuto a causa dell’aumento dei costi energetici. Questo vuol dire, semplificando, che la Fed non ha strumenti propri per bilanciare due squilibri sempre più grandi e minacciosi. Il surplus, se usato per ridurre il debito e comunque messo a riserva, è un compensatore dell’enorme deficit commerciale americano. Insieme al dollaro alto. La Fed teme che il rallentamento dell’economia (il Pil del 2001 è previsto attorno al 3,5%), e quindi la riduzione dei profitti degli investimenti in dollari, riduca la forza del secondo fattore, rendendo il primo ultima spiaggia per sperare in una equilibratura senza traumi (nazionali e globali). Ma, appunto, non ha il controllo di questa leva di governo. Ed è evidentemente nervosa. Ma più ravvicinata appare l’inquietudine per prezzi del petrolio che si annunciano troppo alti nel futuro. Combinata con la scoperta – detta con garbo perché è di moda affermare il contrario - che la supertecnologica economia statunitense non sia ancora sufficientemente indipendente dai costi energetici. Per contenere questa componente esogena e geopolitica dell’inflazione la Fed non può fare nulla. Dipende da una Casa Bianca in transizione tra un presidente e l’altro. In sintesi, la Fed ha annunciato che non ha mezzi per intervenire sulle principali fonti di squilibrio che si prospettano all’orizzonte. E’ un modo per invocare un nuovo ministro del tesoro di qualità eccezionali, tipo Rubin? Chissà.
Fa riflettere anche il tono con cui il rapporto affronta lo scenario regolativo interno più influenzabile da manovre sui tassi. Da una parte c’è soddisfazione perché il rialzo del costo del denaro ha ridotto lo squilibrio inflazionistico tra domanda eccessiva ed offerta. Dall’altra, la Fed denuncia una difficoltà analitica nel capire come si incrocino il rallentamento naturale (ciclico) dell’economia e quello indotto dalla recente stretta monetaria. Punto critico. Se il primo risultasse più marcato di quanto pensato, allora il secondo, o altri rialzi dei tassi per contenere l’inflazione, causerebbero un’improvvisa recessione. Nel dubbio, la Fed non può far altro che rinunciare alla politica di regolazione anticipativa, così orgogliosamente annunciata nel recente passato, e mettersi ad aspettare gli eventi, anche per non diventare il capro espiatorio in caso di guai. E il tono del rapporto induce ad una tale lettura. Mi sembra novità, pur ipotetica, degna di segnalazione.