Sta cambiando l’immagine di Alan Greenspan. Finora era considerato il salvatore dell’economia globale. Nella tempesta planetaria del 1998 inondò di liquidità il mercato americano e, grazie a questa leva espansiva, lo configurò per assorbire le esportazioni di tutte le economie nazionali in crisi recessiva, così salvandole. Negli Stati Uniti era visto come il nocchiere capace di tenere la crescita economica entro il binario della poca inflazione combinata con una crescita robusta e continua. Ma il pesante rialzo dei tassi di riferimento a breve martedì scorso, dal 6% al 6,50%, ha innescato un coro generale di dissensi. A Washington i democratici temono che tale stretta monetaria, e l’alta probabilità che si arrivi al 7% entro l’estate, possa gettare l’economia americana in recessione. Evento che penalizzerebbe forse irrimediabilmente il candidato Al Gore nelle elezioni presidenziali del prossimo autunno. I repubblicani accusano la Fed di dirigismo, cioè di usare la manovra monetaria per regolare troppe cose che non sono di sua competenza, Borse e tasso di crescita dell’economia, creando pericolose distorsioni nel mercato. Le province dell’Impero, poi, segnalano nervosismo e fastidio. Gli alti tassi attraggono troppi capitali verso il dollaro. Ciò comporta una sorta di esportazione dell’inflazione americana al resto del mondo (complicata dagli elevati prezzi del petrolio fatti in dollari) condannandolo a tassi più alti del necessario e relativa compressione della crescita economica. In sintesi, per la prima volta da molti anni Greenspan sta ricevendo critiche da tutti e non solo da alcuni. Questo è un nuovo problema. Finora gli scenari relativi ai destini dell’economia statunitense, e quindi di quella mondiale di cui la prima è pilastro, erano sbilanciati verso l’ottimismo – nonostante i segnali di squilibrio ed insostenibilità della crescita – perché registravano una sorta di effetto fiducia da parte di tutti nei confronti di Greenspan: ci penserà lui. Il cambiamento di questo clima sta predisponendo il mercato ad una svolta psicologica pessimistica. Ma solo un punto preciso potrebbe avere questo effetto: l’idea che Greenspan non sappia che pesci pigliare per contrastare l’inflazione ed altri squilibri da surriscaldamento del sistema americano e che ad un certo punto non abbia altra opzione che accettare la necessità di mandarla in recessione. Per questo è importante capire se questa specifica idea sia consistente o meno.
I critici stanno rivedendo tutte le mosse attuate nel recente passato da Greenspan in chiave negativa. Esempi. Nel 1998, in realtà, ha esagerato nel ridurre i tassi creando le basi per la formazione di una ingestibile bolla americana. Ha fallito clamorosamente nella sua strategia gradualista di rialzo dei tassi per frenarla. Dal settembre scorso al febbraio 2000 i dollari presi a prestito per speculazioni sulla Borsa sono passati da 180 miliardi a 265. Prova che mentre cercava di calmierare i bollenti spiriti questi, invece, puntavano ad un rialzo borsistico prolungato e facevano crescere il Nasdaq dell’88% nello stesso periodo. Poi costoro hanno preso una musata. Ma non perché il mercato abbia creduto agli ammonimenti frenanti di Greenspan, ma solo perché qualcuno ha detto basta all’evidente sopravvalutazione dei titoli tecnologici. Appunto – è la tesi di costoro - preso atto della propria impotenza, adesso Greenspan deve fare il cattivo. Da qui il rischio che salti tutto e la crisi di fiducia nei confronti dell’imperatore. Tali critiche appaiono solo in parte corrette. In effetti Greenspan deve minacciare un fracasso (cioè tassi sopra il 7% che quasi sicuramente comportano una recessione) perché è fallita la sua azione calmierante precedente. Ma, d’altra parte, gli osservatori non tengono conto di un’azione “nascosta”, incomunicabile, perseguita da Greenspan. La sequenza di rialzo dei tassi è anche servita ad alzare “artificialmente” il valore di cambio del dollaro man mano che l’economia americana si avvicinava ai tetti di insostenibilità della crescita, quindi al punto in cui il mercato ne avrebbe scontato la contrazione (i due fenomeni sono molto correlati). L’ipotesi è che la Fed abbia tarato i rialzi non tanto, o solo, sull’obiettivo di calmierare la crescita quanto su quello di tenere il dollaro altissimo e fortissimo nonostante le profezie sul suo crollo. Infatti, data un’economia – in realtà - poco sensibile ai tassi e, soprattutto, una bolla borsistica spaventosa che se si sgonfia fa saltare il pianeta, qual è il mezzo più semplice e sicuro per evitare il caso peggiore? Evidentemente una moneta fortissima che assicura un costante flusso di capitali verso l’America ed il dollaro indipendentemente dall’incertezza crescente. Cosa che è anche la miglior assicurazione contro impennate dell’inflazione, che permette di rendere brevissime, quasi inavvertibili, eventuali recessioni. Se questa ipotesi è vera, allora Greenspan sta compiendo, sul lato nascosto, un’operazione ardita di grande maestria e possiamo confermare la fiducia che sappia tenere le briglie del sistema americano. Ma certamente al costo di gravi squilibri finanziari nel resto del mercato globale. Fatto che introduce il dato veramente nuovo e preoccupante: c’è una contraddizione tra gestione del sistema americano ed equilibrio di quello globale. E questa sarà dura da gestire perché la si può risolvere solo tornando ai cambi fissi tra valute.