Nel 113° anno dalla fondazione qualcosa doveva succederle. Infatti alla Coca Cola é capitata la più grave crisi della sua storia. Dove? Evidentemente in quel Belgio che sta seriamente competendo (pedofilia, diossina nei mangimi per gli allevamenti, scandali a ripetizione, ecc.) per diventare il luogo più marcio del pianeta. Ma lasciamo stare la malasorte. E' stato molto probabilmente un banale incidente: anidride carbonica di bassa qualità nello stabilimento di Antwerp e fungicida nelle confezioni. Lasciamo stare anche il fatto che il maggiore problema per la Coca Cola deriva non tanto dal fatto in se (intossicazioni di piccola intensità), ma dal ritardo con cui ha reagito nel riassicurare i consumatori di tutto il mondo. Douglas Ivester, capo del colosso globalizzato di Atlanta, ha mostrato una sorprendente indecisione nel dare subito un segnale di tranquillità al mercato. La Johnson & Johnson gestì un po' meglio la crisi del 1982 (confezioni di Tylenol alterate) così come fece la Source Perrier SA nel 1990 (bottiglie contaminate da idrocarburi). Ma bisogna riconoscere che non é facile prendere decisioni in questi casi. Se si "sovrareagisce" - come consiglia, forse semplificando un po' troppo, il Prof. Gerald C. Meyers dell'Università del Michigan - si rischia di ottenere un risultato contrario allo scopo di riassicurazione seminando un panico ingiustificato in tutto il pianeta. Se si sta troppo zitti si attrae la mobilitazione dei gruppi di difesa dei consumatori, ecologisti e simili a cui non par vero di poter farsi pubblicità incalzando le grandi e notissime aziende globalizzate affinché dicano "la verità". E' un fatto di razionalità economica più che etico: un gruppo poco noto può diventare famoso a basso costo attaccando un marchio su cui sono stati spesi molti soldi di pubblicità. Anche per questo motivo non esiste, in realtà, un metodo perfetto di gestione delle crisi in tale materia.
E, oltre alla Coca Cola, ne sa qualcosa la Nestlè fatta oggetto di sabotaggio (i panettoni Motta ed Alemagna) da parte degli ecoguerrieri impegnati contro i cibi geneticamente modificati. Recentemente ha deciso di rinunciare totalmente all'uso di prodotti transgenici proprio perché é difficilissimo sostenere senza danni un tale conflitto pur essendo queste biotecnologie del tutto innocue. Ed é un brutto segnale. I grandi gruppi globali risultano vulnerabili al pregiudizio ed alle mobilitazioni irrazionali sia che si tratti di incidenti che di attacchi espliciti. Sulla questione del transegenetico c'é il rischio che tale stato di cose ritardi il progresso tecnologico. Su quella degli incidenti il rischio di eccesso di punizione per l'azienda aumenta i suoi costi gestionali e l'incertezza dei valori azionari. In sintesi, comincia a profilarsi un problema di sicurezza nel settore alimentare che non può essere risolto dai regolamenti attuali né tantomeno dai sistemi di qualità delle aziende. Queste devono trovare una tutela di livello superiore. E con esse, ovviamente, i consumatori. Come?
Evidentemente manca uno standard mondiale di certificazione che fornisca garanzie di sicurezza degli alimenti tali da ridurre preventivamente - e contenere gli effetti di - incidenti e campagne antimoderniste. I maggiori responsabili di tale ritardo sono proprio le grandi aziende. "Standard certificante" significa più costi. Per esempio, il controllo preventivo dei mangimi per vedere se contengono diossina o altre porcherie potrebbe alzare di quasi il 10% il loro prezzo. Così la certificazione che quella lattina sia sterile e qualitativamente inalterata potrebbe farla costare di più. Non parliamo poi del lato biotecnologico della questione. Un soggetto pubblico (trattato tra governi) dovrebbe prendersi la responsabilità di certificare che quella biotecnologia é sicura al 100%, mettendo al riparo l'azienda che la usa entro i limiti ammessi. Fattibile, ma ci vuole un grande investimento scientifico e di serietà politica. Inoltre il definire degli standard potrebbe escludere dei cibi in effetti rischiosi, ma la cui produzione é il cardine di interi settori economici nazionali che potrebbero andare in crisi. Per esempio le carni americane piene di ormoni che la UE rifiuta di importare (in merito c'é un contenzioso caldissimo in sede di Wto). In sintesi, é questione molto complessa. Ma non irrisolvibile. A parte i dettagli tecnici, la spinta per muoversi verso il nuovo standard mondiale sulla sicurezza dei cibi deve essere sostenuta da un motivo di razionalità economica. In caso contrario i lobbisti dei grandi gruppi sarebbero sguinzagliati per ottenere dai parlamenti un voto contrario. E' possibile? Certo. Non é difficile dimostrare come l'aumento dei costi produttivi e gestionali dovuti al nuovo standard sarebbero di molto inferiori ai guadagni ottenibili grazie allo standard stesso. Ma nessuno lo sta progettando. Sarebbe ora di farlo, nome dell'operazione: mangiare come capitale (e Dio) comanda.