Nei mesi scorsi, a torto o a ragione, la comunità di ricerca in materie economiche e di politica economica, e quella sua parte che scrive sui giornali, è stata accusata di non aver segnalato in tempo utile l’arrivo della crisi e della sua gravità. Questo più o meno dappertutto nell’area occidentale. In Europa, poi, l’imputazione ha assunto toni ideologici: il pregiudizio a favore della libertà dei mercati e delle loro capacità di autoequilibrarsi ha impedito a ricercatori ed analisti i difetti dei mercati stessi. Merkel, Sarkozy e Tremonti sono stati i più accesi in questa critica, al punto di dichiarare finita l’era del libero mercato e l’inizio di una stagione di regolazione più stretta dell’economia da parte degli Stati. Infatti nel G8 del prossimo luglio sia l’Italia – presidente di turno - sia la Germania proporranno l’imposizione di nuovi standard legali e di controllo al mercato per ridurne la libertà. Ora è giusto avvertire i lettori del prossimo pericolo di megacrisi e che questo nasce dal comportamento degli Stati, dall’eccesso di statalismo, e non del mercato.
I pericoli all’orizzonte, collegati, sono due: (a) troppo debito pubblico con rischio di insolvenza per alcuni Stati o gravi distorsioni economiche con esito depressivo per tutti; (b) inflazione che distrugge il valore di redditi, risparmi e pensioni. Il problema sta nascendo perché gli Stati stanno reagendo alla crisi con un eccesso di spesa in deficit che diventerà una montagna ingestibile di debito pubblico. In America e Germania vicino al 100% del Pil, in Giappone verso il 200%, in Italia verso il 120%, ecc. Da un lato tali numeri paurosi sono dovuti al calo del Pil, quindi moltiplicati dalla contingenza recessiva. Dall’altro il debito in termini assoluti – cioè il volume di titoli di Stato - è destinato ad aumentare oltre soglie mai viste nella storia recente e comparabile. Come faranno gli Stati a rientrare da questa montagna di debito? Ora nessuno se lo chiede perché l’emergenza economica richiede interventi di denaro pubblico sia in forma di capitalizzazioni di imprese che altrimenti fallirebbero sia in termini di ammortizzatori sociali. Ma ce lo dovremmo chiedere perché con questo ritmo di crescita del debito arriveremo presto al punto di catastrofe. In Europa aumenterà la spesa per interessi – ora in Italia ogni anno è tra i 60 e 70 miliardi all’anno – fino a diventare insostenibile. Aumenteranno i governi le tasse per compensare sia le minori entrate dovute alla recessione sia per pagare gli interessi crescenti? Ma ciò ucciderebbe la già poca crescita.. Un altro modo catastrofico per abbattere il debito, oltre che a non ripagarlo dichiarando l’insolvenza dello Stato, è quello di lasciar aumentare l’inflazione. Inflazione vuol dire che il denaro vale meno e così il volume del debito. Ma anche redditi, risparmi e pensioni. L’unico modo sano – senza inflazione - per rientrare da un debito pubblico è: (a) non facendone troppo ora; (b) portare i bilanci pubblici al pareggio; (c) ridurre progressivamente i costi statali e le tasse; (d) aumentare la crescita, quindi il gettito fiscale pur a tasse ridotte, togliendo vincoli al mercato; (e) vendendo patrimonio pubblico per abbattere una quota del debito. Di fatto è una soluzione “meno Stato e più mercato”. Ma i politici di destra e sinistra ora al potere in Europa perseguono la visione opposta, populista, di più Stato e meno mercato. Bene, sappiate che la prima formula, applicata con saggezza e tempi giusti, eviterà la catastrofe, mentre la continuazione di quella statalista/populista la renderà certa. Non dite, poi, che non siete stati avvertiti.