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Carlo Pelanda: 2007-7-3La Voce di Romagna

2007-7-3

3/7/2007

Allarme per l’eurodivergenza italiana

 Tutti i governi dell’eurozona si stanno accorgendo che la cessione della sovranità monetaria ammette una sola politica economica, e non due o tre tipi, e che questa è in contrasto con il modello di Stato sociale “pesante”, in particolare, adottato da Francia, Germania ed Italia. Per un po’ hanno reagito non rispettando i nuovi parametri del “criterio esterno”, anche perché tra il 2002 e metà del 2005 la crescita stagnò a causa del ciclo globale, e cercando di flessibilizzarli. Ma alla fine sta prevalendo la consapevolezza che o le nazioni si danno un modello confacente alla moneta unica o l’euro salterà. La Germania ha trovato un adattamento tra politica interna e vincoli esterni. La Francia lo sta facendo ora. L’Italia ancora non ci riesce e diverge sempre di più. 

Questo è lo sfondo che fa capire meglio le parole di Jean-Claude Juncker, Presidente dell’Eurogruppo (Mr. Euro), pronunciate la scorsa settimana: il disordine della finanza pubblica in Italia mette a rischio l’intera eurozona. Seguite dalla bocciatura da parte della Commissione europea (Almunia) del Documento di programmazione economica finanziaria (Dpef) che stabilisce per il prossimo triennio il livello di deficit e le politiche di riduzione del debito per l’Italia. Padoa-Schioppa e Prodi sono rimasti sorpresi. Hanno mantenuto il deficit per il 2007 sotto il 3% del Pil e promesso miglioramenti prospettici. La maggior parte dei media ha commentato che la pressione europea sul nostro governo era un gioco delle parti: far pesare il vincolo esterno per attutire le richiese “spesiste” dei sindacati e dell’estrema sinistra. In realtà – ed è il motivo di questo articolo – non è stato un teatrino. Si è trattato, invece, di un segnale al sistema politico italiano che non può esistere nell’eurozona un governo influenzato da partiti che non rispettano i vincoli di stabilità della moneta unica. In particolare non può esistere in una Italia con un debito superiore al 100% del Pil, che aumenta invece di scendere, e che costa ben 60 miliardi di spesa per interessi all’anno. Ma perché l’Europa preme con tanta forza affinché il governo italiano ottenga il pareggio di bilancio annuo e abbatta sostanzialmente il debito? Teme – motivo delle parole di Juncker – che l’Italia non ce la faccia a restare nell’euro, in prospettiva, cioè uno scenario di tipo argentino: moneta forte, economia debole e politica disordinata. Il punto è che la soluzione non sarebbe quella di lasciar uscire l’Italia perché il ritorno ad una moneta svalutata, ma entro il mercato europeo, destabilizzerebbe tutto il sistema. Se l’Italia non ce la fa salterà tutto l’euro in uno scenario caotico di ritorno alle monete e barriere nazionali. Per questo l’Europa sta diventando pressante. Ma in Italia non è ancora ben chiaro a tutti cosa implichi lo stare nell’euro. I parametri europei si calcolano in “relazione al Pil”. Ciò significa che il modello di una nazione deve stimolare la crescita con assoluta priorità per azzerare i deficit annui e ridurre i debiti cumulati. Ma la priorità della crescita esclude tasse elevate, statalismo eccessivo e l’eccesso protezionista dei sindacati. In conclusione, non è possibile attuare, o cedere, a politiche di sinistra estrema ed allo stesso tempo restare nell’euro. Questo è stato esattamente il messaggio della Ue, più che a Prodi, alla politica italiana. Cronaca di ieri? No, di domani: sempre di più il sistema europeo, allarmatissimo, tenterà di condizionare l’Italia affinché rientri nel binario.

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