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Carlo A. Pelanda
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Libero

2012-6-5

5/6/2012

La strategia di riformare l'euro mostrando di poterne uscire

Parecchi lettori mi chiedono di valutare l'uscita dell'Italia dall'euro. Rispondo volentieri perché da anni il mio gruppo di ricerca sta studiando questo scenario, per la manifesta insostenibilità dell'euromodello, recentemente con più intensità sia perché la probabilità di euroimplosione e' aumentata, pur non ancora prevalente, e per suggerimento del Prof. Savona che correttamente ritiene necessario per l'Italia avere pronto un piano B, in caso. Proprio alla luce di questi studi devo subito avvertire che in ogni possibile scenario di transizione dall'euro alla lira c'e un rischio molto elevato di catastrofe economica e sociale. Pertanto chi desidera, comprensibilmente, l'uscita dall'eurogabbia e la secessione dal Quarto Reich, deve mettere in conto un costo elevatissimo. Infatti, nell'analisi costi/benefici conviene di più cercare di far funzionare l'euro, modificandone l'architettura tecnica e politica, piuttosto che tornare alla sovranità monetaria. Ma va anche detto, che senza mutamenti, l'Italia (auto)annessa nello spazio economico tedesco caratterizzato da vincoli e politica monetaria con esiti depressivi endemici, subirà un processo irreversibile di deindustrializzazione che ne dimezzerà la ricchezza in meno di un decennio, condannando gli italiani alla povertà, con tutto quello di tragico, sporco e violento che ne consegue. Pertanto o l'eurosistema cambia presto in direzione meno depressiva oppure le sarà più conveniente, ad un certo punto nel futuro, uscire. I problemi dell'Italia sono tre: debito, cambio decompetitivo e modello economico interno che soffoca la crescita. Gli eurovincoli li peggiorano invece che aiutare a risolverli, in particolare il problema del debito. Se l'Italia tornasse in sovranità monetaria, la sua Banca centrale potrebbe comprare il debito nazionale, convertito in nuove lire, e rendere minimo il costo di rifinanziamento e la spesa per interessi, come fanno Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Ma in questa operazione la lira perderebbe circa meta del suo valore in relazione all'euro odierno e così i titoli di Stato, almeno per un biennio. Tale prospettiva porterebbe i risparmiatori a spostare i loro soldi dalle banche, prima. Inoltre il debito sovrano italiano sarebbe classificato come parzialmente in insolvenza. Le due cose comporterebbero la crisi bancaria e del credito. E inflazione che distruggerebbe i redditi, in modo devastante per i pensionati. Se si riuscisse a superare senza morti questo impatto, poi il minor peso della spesa per interessi (oggi tra gli 80 e 90 miliardi annui) e la competitività del cambio permetterebbe all'Italia una crescita del Pil tendenziale attorno al 5 per cento. La Fiat tornerebbe in Italia, per dire, ma un export italiano così competitivo, metterebbe in crisi gli altri europei, Germania in particolare, costringendoli a mettere a dazio e a distruggere il mercato unico europeo nonché Schengen. Ma potremmo sopravvivere puntando al mercato globale ed al dominio di quello mediterraneo. Quindi il problema si concentra su come superare il biennio di ritorno alla lira evitando la distruzione totale del sistema. In teoria un modo ci sarebbe. Agganciare la nuova lira al dollaro e ottenere dall'America una linea di credito speciale di 1,5 trilioni di dollari. Se fosse possibile, la svalutazione della nuova lira sarebbe contenuta, sufficiente per dare impulso alla crescita, ma non troppa per costringere il mercato europeo al ritorno dei dazi. Questa opzione andrebbe approfondita, non dimenticando che bisognerebbe mantenere il pareggio di bilancio comunque. E se diventasse credibile, l'Italia potrebbe usarla come dissuasione per costringere la Germania a salvare se stessa accettando un eurosistema sostenibile per tutti. Ma Roma ha le palle per una strategia del genere?

(c) 2012 Carlo Pelanda
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