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Carlo A. Pelanda
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Libero

2012-3-27

27/3/2012

La riforma del lavoro è inefficace e va aggiustata

I portatori del pensiero realistico e liberale dovrebbero accettare la riforma del mercato del lavoro perché abolisce il protezionismo irrealistico dell’Articolo 18, chiudendo un occhio sulla sua impostazione sbagliata e inefficace, oppure dovrebbero rifiutarla per questo motivo, ma così rischiando di tenersi l’orrendo Articolo 18 stesso? L’impianto è viziato dalla teoria sbagliata adottata dalla Prof.essa Fornero. La teoria giusta, perché realistica, è che il mercato debba creare ricchezza e lo Stato dare garanzie evitando che la missione del secondo impedisca quella del primo. Nella tradizione della sinistra (e della meno influente destra statalista) è radicata, invece, la teoria che il mercato debba dare garanzie e lo Stato ricchezza. L’evidente irrealismo ha indotto le sinistre occidentali più moderne a cambiare, negli anni ’90, tale visione portandola il più vicino possibile al realismo, scontrandosi con l’estremismo: il centrismo pro-mercato di Clinton, la Terza via di Blair, il Nuovo centro di Schroeder, ecc. In Germania proprio la sinistra centrista impose il principio che le imprese dovevano essere lasciate il più libere possibile e detassate per poter competere, caricando la missione di tutela sui bilanci pubblici. Ha funzionato: le imprese licenziano liberamente in base a criteri di competitività, oltre a poter variare i salari in base ad una logica aziendale specifica, ed il licenziato mantiene un reddito garantito dal denaro fiscale, pur nella pressione, ed aiuto, a cercare un altro lavoro. Fornero, invece, ha impostato la riforma già partendo dall’idea che il mercato deve dare garanzie, dimostrando un’ispirazione di sinistra non ancora riformata dal realismo anche se non più estrema. Così è uscita la fesseria di irrigidire l’accesso al lavoro per i giovani e quella di rendere troppo costosi i licenziamenti. Infatti la riforma non produrrà alcun effetto stimolativo. Lo produrrebbe se l’accesso al lavoro fosse molto flessibile in fase di apprendistato e se un licenziato passasse subito sotto sussidio statale (decrescente) senza oneri per le aziende. L’enfasi sull’abolizione del precariato, in particolare, denuncia il non recepimento da parte di Fornero di una visione più realistica e chiara: uno può perdere periodicamente il lavoro, ma essendo sussidiato dallo Stato non sarà realmente un precario. Dove il punto sistemico è che ciò genera una pressione formidabile sullo Stato a massimizzare la crescita per non caricarsi di troppa spesa assistenziale. Infatti la Germania, pur non liberalizzando, ha forzato la strategia mercantilista per trainare la crescita e l’occupazione via export, riuscendoci. Tale considerazione porta la critica verso il governo intero che ha trattato il lavoro come un oggetto settoriale senza capire che richiede, invece, una visione sistemica: (a) un progetto nazionale che stabilisca la centralità dell’impresa e la priorità di renderla competitiva globalmente; (b) conseguente modello di garanzie economiche caricato sui denari fiscali e non sui bilanci delle imprese, concentrando le responsabilità sui contratti aziendali specifici; (c) strategia competitiva per massimizzare la crescita e così dover ricorrere il meno possibile alla spesa pubblica per sostenere i disoccupati. Ma in sede di prossimo dibattito parlamentare c’è ancora la possibilità di inquadrare il lavoro nel modo giusto, cioè sistemico e realistico, rendendo la riforma efficace e non solo rilevante perché modifica l’orrore depressivo dell’Articolo 18. Lo si consideri un appello ai parlamentari dell’area liberale del centrodestra e del centro. Il governo chiede di non modificare il testo della riforma per mostrare al mercato internazionale che l’Italia sta avviando riforme competitive pro-crescita. Non vorrei offendere, ma proprio questo è il punto: non è una riforma competitiva, ma un pasticcio su cui rimettere le mani per renderla tale.

 

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