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Carlo A. Pelanda
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Libero

2011-12-11

11/12/2011

La crescita tornerà

Il danno peggiore della crisi del 2008 in America ed Europa è stato più psicologico che tecnico: ha indotto  l’idea che fosse finita l’età della crescita continua della ricchezza. Tale profezia è infondata. La crescita   potrà benissimo riprendere senza limiti nelle economie già mature, anche in Italia, ma alla condizione di cambiarne i modelli.

Nel dopoguerra la crescita fu spinta dal boom demografico, dal trasferimento nel mercato delle competenze sviluppate nell’industria bellica e dalla diffusione nel mercato internazionale dell’enorme capitale cumulato in America. Nei primi anni ’60 l’America temette la supremazia sovietica e mise in priorità la coesione del fronte delle democrazie. La ottenne  arricchendo gli alleati attraverso una formula di commercio asimmetrico: l’America si apriva alle loro importazioni, ma non pretendeva reciprocità. In tal modo gli alleati europei ed asiatici ebbero la possibilità sia di crescere via export sia di proteggere i loro mercati interni. Questa capitalizzazione strategica stabilizzò il consenso pro-occidentale. Ma creò uno squilibrio, aggravato dopo la sua applicazione alla Cina nel 1996. Tutti dipendono dalla locomotiva americana e sono incapaci di fare più crescita nei loro mercati interni perché o poco liberalizzati o ancora in via di sviluppo. Da tempo l’America è diventata troppo piccola per reggere tutto questo carico di importazioni. Gli esportatori hanno tentato di mantenerne elevato il tiraggio drogandola di capitale finanziario, ma ciò ha creato una distorsione che poi fu  causa indiretta della crisi 2007-08, ancora in atto. L’America spinge le nazioni a liberalizzare ed aprire i loro mercati interni affinché da vagoni si trasformino in locomotive economiche capaci di integrarne lo sforzo. Ma senza successo. L’America si riprenderà presto, ma il suo traino della domanda globale sarà inferiore a quello del passato. Pertanto il futuro della crescita dipende da quanta le altre nazioni riusciranno a farne di più nei loro mercati interni. La Cina non potrà farlo presto ed è a rischio di implosione. Anche per questo rischio è l’Eurozona che dovrà diventare una locomotiva più trainante. Come? Liberalizzando ed innovando il modello. Un precursore culturale utile per il cambiamento sarà lo svelare i fondamenti illusori del  modello di protezionismo sociale: (a) l’idea di dare garanzie indipendenti dagli andamenti di mercato, applicata in Italia negli anni ’70, si basa sul pensare che il boom post-bellico fosse una costante e che quindi re-distribuire la ricchezza non ne limitava la creazione; (b) l’idea che eccessive regole e tasse possano non ostacolino la crescita si basa sull’anomalia storica della sovracapitalizzazione strategica detta sopra. Tale analisi è poco frequente a causa del dominio culturale della sinistra che non ama scoprire la base illusoria delle sue dottrine. Ma basterà liberalizzare? Sarà necessario, ma non sufficiente. L’economia è cambiata. La crescita nelle economie mature non è più trainata dalla demografia. Quindi va spinta da un altro fattore: la conoscenza e da investimenti che la aumentino a livello di massa, creando un sistema economico a fortissima qualità competitiva e crescente produttività (che contiene l’inflazione quando aumenta il capitale). In sintesi, il nuovo modello liberalizzato, ed il suo contratto fiscale, non dovrà essere un vuoto di garanzie, ma una loro conversione in forma di investimento. Si potrà certamente fare, in un decennio, e la crisi del debito che costringe ad azzerare il finanziamento in deficit delle protezioni sociali eccessive aiuterà. Chi vuole approfondire veda “Il nuovo progresso” (www.nuovoprogresso.it). Il punto per l’ottimismo è che possiamo tornare a provarlo perché di fronte ad ogni limite possiamo cambiare per superarlo. Questa è la forza del capitalismo che chi teorizza l’esistenza di limiti assoluti alla crescita, per esempio il Prof. Bertolini ieri su queste pagine, sottovaluta e quindi produce analisi pessimistiche.

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