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Carlo A. Pelanda
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Libero

2010-6-1

1/6/2010

Dalla tassazione platonica a quella aristotelica

La minimizzazione dell’enorme evasione fiscale è una priorità nazionale. Due politiche per farla: (a) aristotelica, implica un credibile progetto di riduzione nel tempo delle tasse entro limiti di sostenibilità, la definizione precisa della loro utilità specifica e la certezza che nemmeno un centesimo dato allo Stato venga sprecato per difetto gestionale o allocato per funzioni inutili; (b) platonica, si basa sul principio di imporre via repressione e dissuasione il pagamento delle tasse a prescindere da qualsiasi criterio di loro sostenibilità ed utilità. La seconda, pur tipica visione della sinistra, si sta affermando come criterio del governo di centrodestra, nella formula, per altro già espressa da Visco, di “costringere tutti a pagare le tasse per poi poterle ridurre”. Da un lato, tale svolta è comprensibile per la necessità di riequilibrare in tempi brevi i conti pubblici cercando di portare nelle casse statali almeno una parte dei 100 miliardi, forse molto di più, di denari evasi. Dall’altro, tale politica basata sull’aumento dei controlli e della repressione non funzionerà perché la sua insostenibilità indurrà nuove vie di evasione e la sua immoralità fornirà una giustificazione etica a chi evade pur senza necessità. Pertanto si raccomanda a governo e maggioranza di abbandonare l’opzione platonica e di tornare su quella aristotelica.

Ci sono tre tipi di evasione: criminale, per avidità, per necessità. La prima è principalmente collocata nelle regioni meridionali come conseguenza di una diffusa economia altrettanto criminale. Qui la soluzione implica due azioni. Ridurre tasse e costo del lavoro per portare più persone dall’economia criminale a quella di mercato grazie all’incentivo per le imprese di operare in quelle aree. Senza questa politica quella di polizia non funzionerebbe. La terza è visibile nelle microimprese e simili: moltissime, se pagano le tasse, devono chiudere ed è ovvio trattare la questione con prudenza. Pertanto più soldi fiscali possono venire solo dagli “avidi” che hanno buoni guadagni e si autoriducono le tasse potendolo fare. Ma approfondiamone l’avidità. Questi lavorano con rischi elevati di mercato e forte stress che non vengono riconosciuti dalla legge in forma di detrazione. Si detraggono da soli l’aliquota non sentendosi, a ragione, in colpa. Poi vedono che i loro soldi finanzierebbero apparati inutili e sprechi di ogni tipo e ciò fornisce un valore etico all’evasione. La politica fiscale corrente vuole stanarli via repressione e dissuasione. Ma il sistema dei controlli sarà sempre immensamente inferiore alle possibilità di eluderli. Nel calcolo costi benefici converrà prendere il rischio dell’evasione viste le cifre. Non pagare le tasse ad uno Stato degenerato è un atto etico che prevale sulla percezione di reato. In sintesi, un’analisi realistica mostra che i cosiddetti “avidi” vanno convinti e non repressi. E certamente non verranno convinti fino a che il governo non sarà credibile nell’offrire un contratto fiscale basato su due principi: sostenibilità delle tasse e loro evidente utilità in termini di ritorno. Il che significa ridurre di un terzo almeno la spesa pubblica, e le tasse, nonché rivedere tutte le funzioni pubbliche dimostrandone l’utilità e l’efficienza. Non lo si può fare subito. Ma subito deve essere promesso in modo credibile con evidenza dei primi passi in questa direzione. Solo così gli avidi, in realtà il popolo produttivo che vive di mercato, troveranno utile investire in più contributi fiscali per avere meno tasse nel futuro. Il problema non è l’evasore, ma lo Stato.

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