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Carlo A. Pelanda
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2010-10-25

25/10/2010

G20 diviso, ma nessuno vuole guai

Pressato tra necessità del rigore ed inefficienza strutturale, difficilmente il mercato italiano troverà a breve/medio termine le condizioni per una forte crescita interna. Pertanto la nostra economia potrà crescere solo se trainata dall’export. Al riguardo c’è l’ottima notizia che le imprese italiane restano competitive nel mercato globale. Ma proprio per questo dobbiamo prestare massima attenzione alla sua stabilità.  

Il summit dei ministri economici e banchieri centrali del G20 in Corea del Sud, nel fine settimana, non ha registrato accordi, anzi,  ma è stato fonte di un segnale importante: non c’è convergenza tra la principali economie del pianeta – America, Cina, Eurozona, Giappone – ma nessuna di queste vuole disordine, inteso come innesco di svalutazioni competitive multiple e protezionismi. E’ una buona notizia perché indica che i principali attori del mercato globale, pur divisi, non faranno – per il momento -  mosse destabilizzanti. Il problema è il seguente. Il mercato interno americano, poiché il più aperto e capitalizzato sul piano dei consumi interni, assorbe l’export di tutto il mondo, ma i Paesi esportatori non importano a sufficienza perché tengono i loro mercati o semichiusi (Cina) o a bassa crescita interna (europei e giapponesi) creando così uno squilibrio a danno dell’America (deficit commerciale, pressione competitiva che induce disoccupazione, ecc.). Tale squilibrio è peggiorato dalla svalutazione competitiva dello yuan cinese (attorno al 30%). L’America, un po’ perché ha la priorità di reflazionare la sua economia a ripresa troppo lenta e un po’ per riequilibrare il sistema economico internazionale a suo favore, preme affinché Pechino rivaluti sostanzialmente lo yuan e aumenti le importazioni capitalizzando le masse invece che tenere il surplus da export concentrato nel suo fondo sovrano. E se questa non lo farà, minaccia di usare la sua forza geopolitica per imporre regole di bilanciamento globale e, più implicitamente, di far crollare il dollaro distruggendo le economie di tutti gli altri con un’ondata globale di inflazione combinata con recessione. In Corea, infatti, L’America ha minacciato di imporre limiti (implicitamente con sanzioni protezionistiche) alle nazioni con un surplus esportativo eccessivo. Ciò ha spaventato non solo la Cina, ma anche Germania e Giappone i cui modelli economici si basano sull’export e su una crescita interna piatta, come sta diventando l’Italia, e l’America si è trovata in minoranza. Ma ha fatto passare il principio che l’eccesso di surplus esportativo vada riconosciuto come fattore squilibrante da correggere, gli altri forzatamente d’accordo, pur riuscendo ad evitare tetti precisi, per evitare che l’America faccia azioni destabilizzanti per disperazione. In realtà non c’è convergenza, a parte il mandato al Fmi di individuare i parametri tecnico-numerici della questione, ma è importantissimo che gli attori abbiano affermato il principio, per nulla scontato, che la questione vada risolta in via negoziale. Non ci sarà soluzione perché Cina, Germania e Giappone non riusciranno a cambiare il loro modello economico aumentando in poco tempo crescita interna ed importazioni così riducendo il surplus. Ma verranno cercati degli strumenti per attutire lo squilibrio. Per l’Italia è un buon esito perché promette: (a) il mantenimento di una certa stabilità globale necessaria per il nostro export; (b) una minore necessità dell’America di svalutare il dollaro mettendo in trappola decompetitiva l’export denominato in euro, tra cui il nostro. Ma la situazione resta appesa ad un filo. 

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