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Carlo A. Pelanda
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2005-1-31

31/1/2005

Il futuro del nuovo Iraq

 Nonostante l’alto costo di sangue gli iracheni hanno votato in massa e con questo hanno fatto nascere una democrazia, dimostrato che la vogliono. D’ora in poi, per noi, la “questione irachena” non potrà più ridursi al solo discutere sulla legittimità della rimozione di Saddam Hussein, ma riguarderà la scelta tra l’aiutare o meno la nascita di una democrazia.

 L’aiuto che possiamo dare, prima di tutto, è quello di capire cosa vada fatto per il benessere degli iracheni e formulare una corrente di opinione corrispondente. Tale scenario ha tre requisiti: libertà combinata a diritto (democrazia solida); un mercato che crei e diffonda socialmente la ricchezza (economia funzionante); sicurezza. Il terzo è, ovviamente, la priorità che condiziona il realizzarsi degli altri due. Ma ci vorranno non meno di due anni ancora prima che la polizia e l’esercito del nuovo Iraq siano in grado di gestire sovranamente la loro sicurezza interna ed esterna. E nel 2005, come prescritto dalla risoluzione dell’Onu in materia, l’assemblea ieri eletta dovrà gestire un processo costituente – l’estate prossima - e nuove elezioni a fine anno, in base alle scelte costituzionali fatte sovranamente. Questo vuol dire che la popolazione irachena ha un bisogno oggettivo di assistenza militare ancora per un anno e, realisticamente,  almeno fino alla fine del 2006. Se il nuovo governo uscito dalle urne chiederà tale aiuto sarà morale e responsabile esprimere un consenso per darglielo. Se ci chiederà di andare via, per altro, dovremo farlo perché la legittimità vera, sostanziale, dell’iniziativa alleata in Iraq si basa sul creare una democrazia che renda i cittadini responsabili delle loro scelte e non certo ascari. Ma, osservando i programmi dei partiti – nell’area della maggioranza etnica sciita e nella minoranza curda -  che hanno vinto le elezioni, è molto probabile che ci chiederanno di restare per il tempo necessario alla stabilizzazione. Non solo. Ci chiederanno anche aiuti straordinari per avviare un sistema economico senza il quale la libertà democratica sarebbe un guscio vuoto di contenuti concreti. La progressiva eliminazione dell’insorgenza sunnita, il disarmo degli estremisti di area sciita e la riduzione del rischio di guerra civile interetnica non potrà basarsi solo sulla capacità repressiva, ma dovrà essere accompagnata da un rapido sviluppo che dia occupazione ed ottimismo a tutta la popolazione rendendo diffuso il beneficio della democrazia. Cosa sia necessario sul piano economico per ottenere tale risultato è la parte meno commentata sui media. In estrema sintesi, l’Iraq soffre di un trentennio di dittatura che ha investito in armi e non in sviluppo civile. Sul lato dei vantaggi ha enormi giacimenti di petrolio. Ma bilanciati dallo svantaggio dell’enorme debito lasciato da Saddam. Ciò vuol dire che il Paese ha bisogno di una capitalizzazione iniziale che non è in grado di sostenere da solo. Qui va concentrato l’aiuto economico internazionale. Sulla riduzione e rinegoziazione del debito – Russia e Francia tra i maggiori creditori – le notizie sono incoraggianti, ma ci vorrebbe più generosità e visione. Sul piano della capitalizzazione diretta non si può sperare che il mercato entri in Iraq fino a che il rischio del terrorismo ed altri non verranno eliminati. Quindi gli investimenti dipenderanno da aiuti di denaro pubblico di Paesi donatori. Gli Usa hanno confermato uno stanziamento di 80 miliardi di dollari. E’ una cifra enorme, ma per dare il giusto impulso iniziale all’economia del nuovo Iraq ci vorrà qualcosa di più che solo gli europei potranno dare in forma di donazioni e crediti agevolati. Dipenderà anche dalla forza delle nostre opinioni il fatto che lo facciano o meno.

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