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Carlo A. Pelanda
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2004-4-13

13/4/2004

Il giusto europeismo

Tra i tanti temi cruciali del 2004, la ricerca del “giusto europeismo” appare quello più urgente per dare all’Unione europea un’architettura politica che favorisca la ricchezza degli Stati membri invece di deprimerla. Problema che i centri di ricerca iniziano a precisare in forma di perdite reali e potenziali che stiamo subendo a causa di regole europee sbagliate.

Per esempio, il gruppo di ricerca del Prof. Savona ha stimato che la Banca centrale europea, tenendo i tassi troppo alti in una situazione di recessione globale (2001-3), ha tolto all’intera eurozona qualcosa come il 2% di Pil all’anno. Con i tassi giusti e un conseguente valore di cambio competitivo dell’euro, invece, l’’eurozona avrebbe evitato la crisi di stagnazione che ancora la attanaglia. Il punto: un tale madornale errore di politica monetaria non è solo dovuto a cattiva gestione, ma al fatto che la carta fondativa della Bce la costringe a sovrastimare il pericolo di inflazione e quindi ad essere repressiva e non stimolativa in caso di crisi. Una follia tecnica unica al mondo.

 Altri ricercatori stanno calcolando l’effetto della rigidità del Patto di stabilità – il vincolo al pareggio di bilancio per rendere stabile la moneta unica - sulle politiche economiche nazionali, in particolare il divieto di attuare deficit. Il danno potenziale maggiore dell’attuale formula è quello di impedire i deficit buoni, cioè tutti quegli squilibri finanziari temporanei che sono necessari per le riforme di defiscalizzazione. Buoni perché hanno la natura di investimenti: riduco le tasse per poi avere più crescita e, quindi, più gettito futuro pur con carichi fiscali minori. Questo punto ci interessa da vicino: l’Italia sarà la prima euronazione ad attuare, a partire dal 1° gennaio 2005, una sostanziale riduzione delle tasse. Il doverla fare rispettando anno per anno il vincolo di non superare un deficit del 3% in relazione al Pil sarà di una difficoltà mostruosa e costringerà a tagli o acrobazie finanziarie inutili. Inoltre, con tale vincolo la riforma fiscale dovrà essere graduale mentre una di maggiore entità ed intensità avrebbe effetti stimolativi molto maggiori. In questo scenario proiettivo l’attuale configurazione del Patto è un costo inutile.

Meglio chiarire questo punto. Nei vincoli europei attuali il governo italiano non può ridurre, come vorrebbe, sia le tasse sulle persone (Irpef) sia quelle sulle imprese  perché rischierebbe un deficit il primo anno attorno al 4-5%. Nel dover scegliere tra le due deve per forza dare priorità alla riduzione dell’Irpef per, intanto stimolare i consumi interni. Cosa che ci darà già nel 2005 una buona crescita e quindi un gettito più alto pur a tasse minori. Ma se l’Italia potesse fare ambedue le detassazioni all’unisono entro due anni sarebbe boom economico. Al costo di un deficit oltre il 3% nel primo biennio, ma con un riequlibrio al terzo dovuto alla grande crescita del Pil. Non potremo farlo perché il Patto ci impedisce di sostituire il calcolo annuale di stabilità con uno triennale. Ed è “stupido” proprio per tale motivo: non riconosce né la natura di investimento delle defiscalizzazioni né la necessità dei deficit di sostegno alla popolazione nei casi di grave crisi economica.

In conclusione, il “giusto europeismo” implica tre azioni: (a) dare alla Bce anche la missione stimolativa bilanciandola con quella di contenimento dell’inflazione; (b) riformulare il Patto affinché divenga amico e non nemico delle nazioni; (c) valutare il modello europeo non solo per i suoi aspetti ideali, stile poco realistico che prevale nell’opinione pubblica italiana, ma anche per quelli pratici, modificando i primi in base a ciò che richiedono i secondi.

(c) 2004 Carlo Pelanda
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