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Carlo A. Pelanda
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2020-9-4

4/9/2020

Quale strategia spinge la penetrazione della finanza americana in Cina?

Incuriosisce la recente accelerazione degli insediamenti di attori finanziari statunitensi nel mercato cinese nonostante la guerra economica tra le due potenze. Tale movimento è certamente parte di una strategia da parte di Pechino, ma è improbabile che banche e fondi americani non abbiano consultato preventivamente l’amministrazione Trump. Questo è il punto da capire: in una situazione dove Washington sta estendendo le restrizioni alle relazioni economiche con la Cina il settore finanziario appare esente.

La strategia cinese è evidente: usare il suo enorme mercato interno per dare vantaggio ad attori privati affinché poi questi influenzino le decisioni (geo)politiche delle nazioni rilevanti. Fu inaugurata alla fine degli anni ’80 più per attrarre investimenti esterni diretti. A metà degli anni ’90 divenne più politica: furono attori industriali e finanziari statunitensi, incentivati, a convincere l’amministrazione Clinton a concedere alla Cina lo status di nazione privilegiata nei commerci – premessa per l’accesso pieno al mercato globale poi avvenuto nel 2001 via Wto – proprio nel momento in cui l’ufficio del Net Assessment del Pentagono produsse uno scenario dove mostrava che l’aumento della ricchezza avrebbe permesso a Pechino di sfidare la superiorità anche militare statunitense nel 2024, in particolare nel Pacifico e dove vennero raccomandati programmi per mantenere la superiorità stessa (poi solo in parte realizzati). Per inciso, con la Germania questa forma di condizionamento indiretto funzionò anche meglio. Nell’autunno del 2017, quando l’amministrazione Trump con il consenso bipartisan del Congresso formalizzò la natura di nemico/competitore della Cina, Pechino aprì di più il proprio mercato interno con nuove regole che favorirono, in particolare, l’insediamento di attori finanziari stranieri, probabilmente per replicare la strategia. Ora negli ultimi mesi accelerata, appunto. Forse l’amministrazione Trump ritiene che l’insediamento della finanza statunitense in Cina possa essere in realtà contro-condizionante? Forse l’obiettivo della guerra economica in atto è selettivo: costringere la Cina a configurarsi solo come potenza regionale e non globale-sfidante e se lo accetta poi di nuovo amici? Oppure qualcuno ha suggerito che per mantenere la superiorità del dollaro e comprimere le ambizioni degli attori in euro è necessario conquistare più flussi dal risparmio cinese? O, semplicemente, il regime cinese è in difficoltà ed ha bisogno di una lunga tregua? Difficile capirlo, ma bisognerà tentare perché il tema è un “game changer” globale.

(c) 2020 Carlo Pelanda
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