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Carlo A. Pelanda
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2003-7-28

28/7/2003

Il requisito della competitività bilanciata

E’ forte la tentazione di praticare il protezionismo in quei governi dei paesi ricchi che vedono i prodotti di quelli poveri, e quindi più concorrenziali per costo, massacrare parecchi settori economici in casa propria. Una forte delusione è toccata a quello americano. Nei mesi scorsi quello americano ha pilotato al ribasso il cambio del dollaro, in particolare, nei confronti dello yuan, moneta della Cina popolare. Con questo intendeva ridurre di un po’ l’eccesso di esportazioni cinesi che aggravano lo sbilancio commerciale degli Usa portandolo a livelli insostenibili. Il rialzo dell’euro è stato irrilevante per gli americani perché l’import da questa area è importante, ma non critico. Per altro si è rivelato un disastro per gli europei che hanno perso competitività esterna in una situazione di stagnazione interna. Ma, tornando sul punto, Pechino ha parato questa mossa agganciando la propria moneta (solo semiconvertibile) al dollaro e quindi annullando il tentativo di bilanciamento competitivo attraverso l’aggiustamento dei cambi. Il Giappone ha fatto lo stesso pur in misura minore. Ciò dimostra che non è per nulla facile od automatico equilibrare gli sbilanciamenti di competitività nel mercato globale. Perché non esiste ancora un luogo politico dove le nazioni possano trovare uno schema di bilanciamento tra esigenze di crescita dei Paesi poveri che usano la loro povertà interna per ridurre i costi dei beni esportati e sostenibilità dei Paesi ricchi in relazione a questa frizione concorrenziale.

La teoria del "commercio internazionale", che è quella guida della globalizzazione, recita, che il mercato non è una vasca chiusa dove uno spostamento d’acqua su un lato la toglie da un altro. Per esempio, in Turchia fanno biciclette con costi dieci volte inferiori che in Italia. Ovviamente sarebbe folle continuarle a produrle da noi. Quindi dovremmo spostare la forza lavoro dalle bici a, per dire, la meccanica fine aerospaziale, che i turchi non sanno fare. Cioè attuare un salto competitivo verso una maggiore qualità industriale. Ciò lascerebbe spazio in basso ai turchi e ce ne darebbe di nuovo in alto. E noi venderemmo la meccanica fine ai turchi stessi perché, comprando le loro biciclette, questi avrebbero i soldi per farlo. Alla fine del gioco sia turchi sia italiani sarebbero più ricchi. La magia della globalizzazione è che allarga la vasca e che questa crea più acqua nel momento in cui si amplia. Tale teoria (tra l’altro di due secoli fa) è forse l’unica in economia mai smentita da qualche fatto. Ovviamente la condizione per farla funzionare è che il mercato internazionale resti aperto e libero. Ma, altrettanto ovviamente, questo potrà restare aperto se ogni nazione troverà più un vantaggio che uno svantaggio nel farlo. Quindi, in sostanza, la libertà del mercato globale e la sua capacità magica di creare ricchezza dipende dalla saggezza di tutti gli attori politici nel tenere il sistema "bilanciato".

Purtroppo tale saggezza sta venendo meno. Le élite dei paesi emergenti (India, Cina, ecc.) hanno bisogno di forzare l’export a basso costo per sostenere una crescita elevatissima senza la quale l’aumento di ricchezza non terrebbe il passo del numero di persone che richiedono un reddito decente. Ed hanno ragione. D’altra parte i Paesi ricchi stanno perdendo lavoro perché non riescono a futurizzare la loro economia con ritmi di cambiamento sufficientemente veloci. E così tanti settori restano intrappolati in una competizione senza speranza. L’America sente il problema, ma la sua dinamicità e capacità tecnologica permette di superarlo solo con pochi guai. L’eurozona – rigida e poco moderna – è un disastro in termini di collasso competitivo. L’Italia perfino peggio: tutto quello che produce può essere fatto in Cina o India (tessili, scarpe, bulloni, meccanica media, ecc.) a costi tra i cento e dieci volte inferiori. Con la complicazione che europei ed italiani sentono anche la pressione competitiva delle alte tecnologie che gli americani sanno fare e noi no. Perché per decenni abbiamo gettato dei soldi in programmi assistenziali che finanziavano la pigrizia e l’ignoranza (per esempio la scuola ideologizzata invece che tecnicizzata) e non il capitalismo tecnologico basato sulla conoscenza. Quindi è vero che Paesi come la Cina dovrebbero alzare un po’ di più i costi, ma è ancor più vero che noi dovremmo liberalizzarci e futurizzarci mille volte di più in tempi brevissimi. Poiché questo non sarà possibile sul piano dei tempi, è probabile che nel prossimo futuro la politica europea – meno quello americana – avrà il problema di scegliere tra due opzioni terribili: o gestire una massa crescente di disoccupati oppure alzare barriere protezionistiche. La seconda alternativa sarà politicamente più facile. Ma ciò rischierà di far saltare il mercato globale impoverendo i Paesi emergenti e già poveri e, alla fine, facendo saltare anche quelli ricchi. Come nel periodo 1929-1933 quando il protezionismo ridusse del 60% i volumi del commercio internazionale.

Cosa fare? Il problema, in realtà non è così drammatico: esiste la possibilità di un bilanciamento. Basta che gli europei sblocchino le riforme di efficienza per incentivare gli investimenti futurizzanti ed i cinesi alzino un po’ le tasse senza compromettere, per altro, la loro competitività di fondo. Diventerebbe drammatico se gli europei rimanessero prigionieri della loro rigidità ed i cinesi irresponsabilmente aggressivi. Allora sarebbero guai.

(c) 2003 Carlo Pelanda
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