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Carlo A. Pelanda
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LaVerità

2019-2-24

24/2/2019

L’Italia a rischio nel nuovo ballo delle alleanze

Venerdì scorso i governi europei hanno rinviato la delega alla Commissione europea per avviare il negoziato per un trattato commerciale con gli Stati Uniti. America e Cina, invece, stanno per concludere non solo una pace commerciale dopo la guerra dei dazi, ma anche una possibile convergenza che potrebbe portarle ad una spartizione bipolare delle aree di influenza pur le due potenze continuando un confronto violento per la supremazia globale. Qual è l’interesse nazionale italiano nello scenario che sta emergendo?

L’Italia deve scegliere alleati utili a moltiplicare una forza nazionale troppo piccola per sostenere, oltre che la propria sicurezza, la posizione di quinta potenza esportatrice-manifatturiera nel mondo, seconda nell’Ue, e nona economia mondiale. Gli attuali moltiplicatori sono la Nato, il G7 e l’Ue. Tutti e tre si stanno indebolendo per la divergenza crescente tra Stati Uniti e conduzione franco-tedesca dell’Ue. Finora è prevalsa l’idea che senza gli europei l’America non può sperare di mantenere il primato globale. Ma la conduzione di Donald Trump sta modificando questo concetto che è rimasto in vigore per quasi 70 anni. Già Barack Obama, nel 2009, dichiarò la fine del G7, cioè dell’alleanza con gli europei ed il Giappone, a favore di un G20 che era la foglia di fico per un accordo G2 con la Cina di spartizione del mondo, salvo poi ricredersi a fine 2012 quando la Cina mostrò di voler essere prima e non seconda potenza globale, ponendo all’America il problema di (ri)costruire alleanze per contenere/soffocare l’espansione della Cina stessa. Trump ha cancellato queste alleanze perché considerate troppo costose e condizionanti e ha scatenato il potere di controllo sull’accesso al mercato interno statunitense per costringere via ricatto – per altro politicamente e tecnicamente giustificato per l’insostenibilità del deficit commerciale statunitense e l’impatto impoverente di una concorrenza esterna non bilanciata da reciprocità - le altre nazioni ad accettare accordi economici simmetrici e condizionamenti politici bilaterali. Trattare con Trump è molto difficile perché è convinto che l’America non abbia bisogno di alleati, motivo di continua frizione con il suo staff di tecnici che, invece, capiscono i limiti del potere statunitense e il conseguente fabbisogno di alleanze. Grazie a questi Washington ha accettato l’avvio di un trattato bilaterale con l’Ue a zero dazi sul piano industriale, sospendendolo nel settore auto. Se la Cina accetta le condizioni di simmetria imposte da Trump per rinunciare a daziarla, questa dovrà permettere l’accesso al suo mercato di una quantità tale di merci statunitensi da quasi azzerare il deficit commerciale americano bilaterale, cioè tra i 350 e 400 miliardi di dollari all’anno. Se uno calcola gli intrecci creati da tali volumi troverà la formazione di un mercato integrato sino-americano che comporta la settorializzazione della guerra tra i due, lasciando fuori i flussi commerciali, ma anche un interesse di fatto ad una convergenza politica spartitoria, ponendo europei e russi in marginalità. Ciò pone all’Ue la priorità strategica di entrare di più, via accordo, nel mercato statunitense per usarlo come veicolo verso la Cina e comunque non esserne esclusa, considerando che l’alternativa di un tentativo di accordo Ue-Cina indurrebbe Washington a spaccare l’Ue. Ma di fronte a questo rischio l’Ue ha rinviato l’avvio del negoziato con l’America perché la Francia teme che l’annuncio possa scatenare il protezionismo dell’elettorato francese, in realtà scusa perché Parigi punta ad un’Ue post-atlantica, nonostante la pressione della Germania che vuole accelerare la trattativa per evitare i dazi americani sull’auto, anche interesse dell’Italia. Il governo italiano, invece di spingere con la Germania e altri il negoziato, isolando la Francia, è rimasto in posizione passiva, diventando complice di un danno potenziale per l’Italia e di un rischio esistenziale per l’Ue.

Due opzioni per Roma: o premere per una ri-convergenza euroamericana, forzando la Germania a chiarire i rapporti con la Francia e l’Ue, oppure, se l’Ue si conferma un demoltiplicatore di forza,  siglare un accordo bilaterale di “aggancio industriale e politico” con gli Stati Uniti, in modi permessi dai vuoti  lasciati dalla delega all’Ue per i trattati economici esterni: dentro l’Ue, ma convergente con gli Usa, considerando che la prima e seconda opzione non si escludono. Come rispondere, poi, all’ipotetica proposta della Russia spaventata dall’eventuale duumvirato sino-americano di riunificare l’Europa da Lisbona a Vladivostock? Roma non potrebbe dire di no, ma potrebbe dire un sì condizionato all’inclusione anche dell’America nella ricompattazione dell’Occidente, considerando la (geo)rilevanza di Mosca nell’accerchiamento della Cina. Anzi, Roma stessa potrebbe proporlo. Il punto: la ricerca di moltiplicatori di forza per l’Italia richiede un attivismo diplomatico e ideativo che il governo non esibisce. Da un lato, la sua inerzia e indecisione, oltre che dalle divisioni interne, è giustificata dal fatto la politica e i tecnici non sono addestrati a gestire la nuova mobilità delle alleanze dopo decenni di stabilità delle stesse e di comoda posizione secondaria in esse.  Dall’altro, la politica e i tecnici, nonché l’elettorato istruito, dovrebbero rendersi conto che se l’Italia resta passiva e/o ambigua nei movimenti europei e globali in atto rischia danni gravi, esistenziali.

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