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Carlo A. Pelanda
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2002-9-2

2/9/2002

Vertice di Johannesburg
Dal caos una svolta pragmatica

Numeri del vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile in corso a Johannesburg: 190 Paesi partecipanti; un centinaio di capi di governo o di Stato presenti; circa 20 cortei no-global; un’agenda di lavoro fatta di 5 grandi temi (energia, acqua, agricoltura, salute, biodiversità); 14 questioni chiave per raggiungere un accordo utile alla soluzione dei problemi emergenti in tali settori. Conclusioni realmente operative? Zero. Dieci anni fa anche  il primo vertice del genere (Rio De Janeiro) lasciò ben poca sostanza immediata, ma fu un evento che per la prima volta istituzionalizzò sul piano internazionale la priorità di un approccio globale alla sicurezza ambientale ed il suo collegamento con i problemi della povertà nei Paesi emergenti. Che poi entrò nelle agende, per esempio, dei vertici del G8 con qualche, pur minimo, risultato promettente. In questa ottica, vorrei cercare di vedere quali nuove macrodirezioni, e se, emergeranno dal vertice di Johannesburg.

Mi sembra di averne individuata una che ritengo molto importante e piuttosto innovativa. I governi non riescono (ancora) a trovare accordi su politiche e standard comuni che abbiano un raggio globale. Gli interessi sono troppo diversificati. Per esempio, tutti noi vorremmo che venisse messa in priorità la ricerca di come passare il più velocemente possibile dallo sporco petrolio ad una fonte di energia più pulita, tipo l’idrogeno ed altre. Anche perché l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) prevede un pauroso aumento delle malattie da contaminazione dell’aria (polveri e residui di idrocarburi) proprio da noi in Europa, con danni pesanti alla salute ed ai bilanci del nostro sistema sanitario. I satelliti mostrano che sull’Asia c’è una terrificante nube di smog, ma quella sull’Europa è poco meno. Tuttavia, è ovvio che i Paesi produttori di petrolio (Opec) non siano molto d’accordo su questo punto. Tentare con loro un accordo globale in materia sarebbe tempo perso. E divergenze di interesse simili rendono molto difficile un accordo mondiale su tutte le 14 misure per la realizzazione di uno sviluppo sostenibile planetario. Per esempio, tutti hanno diritto all’acqua, ma per alcuni Paesi questa è una risorsa strategica utile a condizionare un altro ed è difficile che rinuncino a tale vantaggio. Così come per aiutare i Paesi in via di sviluppo parrebbe logico liberalizzare da noi l’agricoltura per permettere a questi di esportare di più. Ma, ad esempio nostrano, la posizione italiana è che se togliessimo le protezioni ai nostri agricoltori questi sparirebbero dal mercato. Sensata la prima proposta, ma anche l’altra preoccupazione. Cosa è razionale fare in questi casi? Invece di tentare un impossibile accordo tra tutti si stimolano le cooperazioni tra quelle nazioni dove i problemi sono minori. Cioè si frammenta la globalizzazione in un mosaico di azioni cooperative bilaterali o regionali. Per esempio, l’Italia ridurrà il debito di alcune nazioni (ha già cancellato quello del Mozambico) senza aspettare un accordo globale in materia. Potranno tanti accordi bilaterali, regionali e settoriali sostituire l’effetto risolutivo di politiche veramente globali? Difficile rispondere, ma se non è possibile altro il fatto che si faccia così può dirsi un bel passo in avanti. E il vertice in corso sembra mostrare la tendenza a generare questa forma polverizzata di accordi come sostituzione di quelli globali ed impossibili. E’ un evoluzione pragmatica.

La stessa che si è notata negli atteggiamenti tra movimenti ambientalisti e grandi multinazionali: Green Peace  e 200 grandi aziende hanno siglato un accordo per collaborare in nuove tecnologie e misure per ridurre i gas contaminanti e per altre azioni di tutela ecologica. Ambientalisti corrotti? No, è il segnale di comprensione che gli Stati nazionali non possono fare tutto e che il mercato e le forze sociali possono fare molto di più, in modi veramente globalizzati. Soprattutto, generando nuove tecnologie ed offerte di prodotti più armonici con l’ambiente, la salute e la soluzione dei problemi più acuti di povertà. Molti europei (tra cui la presidenza di turno danese) vedono con sospetto questa destatalizzazione dell’ecologia e delle azioni di sostenibilità, ma, francamente, io la annoto come la maggiore novità positiva emersa dal summit.

In sintesi, Johannesburg, pur nel rumore di mille voci, agende, temi, interessi contrastanti e teorie in conflitto, mi sembra indichi un futuro di politiche più pragmatiche. Se confermato, ciò è rassicurante per preparare il prossimo Earth Summit del 2012 e fare qualcosa di serio nel mezzo. A quel tempo dovremo avere più informazioni su un dannato problema ecologico. Il pianeta si sta scaldando, non si sa ancora quanto a causa dell’effetto serra e quanto per ciclo naturale terrestre o solare, ed il livello del mare aumenta. Rajendra Pachauri, leader del comitato Onu per il cambiamento climatico (Ipcc) ha comunicato che potrebbe alzarsi tra gli 8 e gli 88 centimetri entro il 2100. Nel secondo caso avremo molto prima di tale data un problema infernale da risolvere: il 70% della popolazione mondiale vive in aree costiere o fluviali che verrebbero danneggiate da tale mutamento ambientale. Con il rischio di doverlo riallocare (un disastro economico) oppure difendere con un’ingegneria territoriale d’emergenza (costi enormi). La gestione di problemi del genere, in caso, richiederanno un estremo pragmatismo ed il fatto di vederlo fare capolino a Johannesburg è buon segno.

(c) 2002 Carlo Pelanda
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