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Carlo A. Pelanda
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2017-5-16

16/5/2017

L’Italia senza strategia estera è in pericolo

Il clima del G7 di Catania e la manifestazione degli intenti strategici di Macron portano alla ribalta il tema della strategia estera italiana. Lucio Caracciolo, direttore di Limes, nota che la rilevanza oggettiva dell’Italia le potrebbe permettere una posizione molto più influente e si chiede, oltre al perché da decenni Roma non riesce a ottenerla, come potrebbe riuscirci. Angelo Panebianco osserva che la ricostruzione dell’asse franco-tedesco come guida della regione europea non potrà avvenire negli stessi termini del passato perché la differenza di potere a favore della Germania, esaltata dal progetto di compattare l’Eurozona, è tale da rendere la Francia un satellite di Berlino e si chiede, in sostanza, come l’Italia potrebbe cogliere l’opportunità di operare come forza di bilanciamento della Germania stessa. Tento delle risposte secondo la mia visione.
I colleghi citati scrivono assumendo che l’Italia abbia un cervello strategico, anzi di “grande strategia”, mentre secondo me il problema preliminare è che tale testa non c’è. Individuare una strategia vantaggiosa di collocazione internazionale dell’Italia è molto difficile per le condizioni di debolezza economica e disordine politico della nazione. Inoltre, è forte la sensazione che eventuali mosse audaci non siano praticabili dal personale politico ora visibile. Non è una critica sprezzante agli individui che operano nella politica e tantomeno ai funzionari nelle istituzioni del settore, per lo più consistenti. E’ semplicemente il riconoscimento del fatto che il sistema politico italiano è rimasto ancorato alle idee del primo dopoguerra: partecipare in secondo piano alle alleanze Ue e Nato, ritagliarsi uno spazio per azioni mercantiliste compatibili con queste, mostrando un forte conformismo che talvolta rasenta la sudditanza, utile per farsi perdonare qualche “corno”, ma non per costruire forza negoziale e credibilità. Da un lato, i casi di tutela puntuta degli interessi nazionali negli ultimi decenni sono stati più frequenti di quelli noti al pubblico. Dall’altro, la politica italiana si è per lo più concentrata sugli affari interni, perché quelli esterni erano gestiti da Washington, Parigi e, recentemente, Berlino, specializzando il suo personale nei giochi di potere interno e non in quello globale, restando senza competenze sufficienti di pensiero strategico che colleghi interessi interni ed esterni. I giovani successori hanno fatto scuola con il vecchio personale politico. In parte ciò spiega perché la politica italiana è rimasta e resta ancora spiazzata dall’inversione del vantaggio delle alleanze. Prima del 2010 Nato e Ue erano comodi moltiplicatori della forza nazionale. Dopo, la Nato è diventata scomoda – per esempio il caso libico - e l’Ue germanizzata un fattore di impoverimento e destabilizzazione. Per altra parte, la politica non è riuscita e non riesce a dotare la nazione di un ordine istituzionale ed economico sufficiente per trattare una collocazione internazionale più vantaggiosa. In sintesi, al riguardo del tema sollevato da Caracciolo, l’Italia non riesce a sfruttare la propria georilevanza oggettiva per la natura del suo sistema politico disordinato e introverso, cioè ancorato alla forma di una nazione sconfitta che comprime l’azione estera. Per costruire i precursori di una capacità nazionale di politica estera attiva, sarebbe necessario: a) dichiarare la fine del periodo della sconfitta (sono testimone che Cossiga voleva farlo nel 1991 per il motivo qui detto); b) rifondare la Repubblica passando a una presidenziale, cioè con elezione separata di esecutivo e legislativo, allo scopo di creare una governabilità verticale capace di riordinare il sistema economico interno, in particolare riducendo il debito, ed essere credibile soggetto di politica estera con interessi chiari; c) generare un Consiglio per la sicurezza nazionale come luogo di elaborazione della “grande strategia” ora affidata a istituzioni sparpagliate che la rendono vaga.
L’ipotesi esplorata da Panebianco di inserire l’Italia in una troika calibrata per bilanciare il potere tedesco dopo che Londra vi ha rinunciato ha senso. Ma Berlino e Parigi difficilmente concederanno all’Italia un potere dirimente. Infatti, i due preferiranno una configurazione a “quadriga”, inserendo la Spagna che è condizionabile da ambedue, togliendo così a Roma e a Madrid potere condizionante e mantenendolo nel bilaterale tra Parigi e Berlino. In sintesi, l’Italia potrà avere qualche spazio, ma troppo piccolo per invertire lo svantaggio. Inoltre, è improbabile – anche perché Macron ha svelato un’impostazione neogaullista che rende Le Pen una nazionalista dilettante al confronto - che la Francia rinunci al progetto, avviato nel 1993, di conquistare il mercato italiano per bilanciare la potenza economica tedesca. Per questo la strategia dell’Italia dovrà puntare alla convergenza tra Ue e Stati Uniti, rafforzare il bilaterale con i secondi e spingere per un consolidamento dell’alleanza atlantica, ripristinando l’idea di avviare per gradi la creazione di un mercato integrato euroamericano. Solo in tale architettura geopolitica ed economica l’Italia potrà avere vantaggi e difendersi da Francia e Germania e grazie a questo poter collaborare con loro alla pari. Questo governo, invece, sta praticando in modo confuso sia mercantilismo sia europeismo sia atlantismo, cioè un’insalata di tattiche senza strategia. In questi tempi è una pericolosa leggerezza da correggere.

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