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Carlo Pelanda: 2010-9-7Libero

2010-9-7

7/9/2010

La degenerazione neoperonista

Se il problema fosse liquidabile con una battuta ci si potrebbe chiedere se i linguaggi politici italiani si stiano muovendo più verso il modello ex-jugoslavo della cogestione aziendale  oppure verso quello peronista che caratterizzò l’Argentina alla fine degli anni ’40, rovinandola. Infatti da un punto di vista razionale tecnico, pur qui filtrato dall’ideologia liberale, le parole che stanno circolando in queste settimane fanno ridere: partecipazione dei sindacati alle decisioni di impresa; partecipazione dei lavoratori dipendenti agli utili aziendali, ma non alle perdite; posto fisso a vita, far pagare le tasse senza  porsi il problema della qualità del contratto fiscale, ecc. Ma non si può scherzare. Queste parole sono dette da ministri del Pdl che dovrebbero perseguire riforme liberalizzanti, da leader industriali che dovrebbero avere il massimo interesse nel rendere chiaro e non ambiguo il modello capitalistico, nell’ambito di una generale tendenza a celebrare la società delle tutele contro quella attiva. Da un lato, questo fenomeno surreale ha una spiegazione: i sondaggi mostrano una diffusa incertezza economica nella popolazione e le élite, in particolare quelle politiche – o che vorrebbero diventarlo - in posizionamento per l’eventuale discontinuità nel prossimo futuro, calibrano i loro linguaggi verso la rassicurazione per ottenere consenso, così evocando modelli sempre più protezionisti. Dall’altro, se tale tendenza si consolida l’Italia avrà un destino argentino. Per questo, scusandomi con i lettori se farò qualche riferimento non immediatamente comprensibile, trovo necessario ribadire la giusta teoria.

Capitale e lavoro. La giusta relazione tra i due non è quella di mescolarli in una relazione ambigua, ma di tenerli ben separati e farli funzionare in relazione complementare reciprocamente amplificante: più capitale che crea più e meglio remunerato lavoro; lavoro che crea sempre più capitale senza generare inflazione (produttività). La recente svolta dei linguaggi verso forme ibride della relazione tra capitale e lavoro - sindacati che influiscono nelle decisioni proprietarie - porta verso il calo della produttività e degli investimenti. Un deragliamento dalla retta via.

Stato e mercato. Più in generale, il modello italiano è caratterizzato da una relazione sbagliata tra garanzie economiche e libertà influenzata della dominanza culturale socialista/solidaristica degli anni ’70. Si ritiene che lo Stato debba fornire ricchezza ed il mercato garanzie. Ma così lo Stato fa un mestiere che non è il suo ed il mercato si trova appesantito da un compito che diverge dai requisiti di produttività del capitale e della creazione di lavoro. La relazione giusta è: lo Stato ha la missione di fornire garanzie, il mercato quella di creare ricchezza, senza mescolamenti. Per esempio: non ti prometto il posto fisso a vita perché sarebbe un imbroglio il farlo, ma ti garantisco che ogni volta che avrai problemi nel mercato ti darò le risorse per vivere e per rilanciarti nell’attività. Così il mercato sarà più libero da pesi, volando meglio, e i lavoratori resteranno tutelati. Allontanarsi da questo principio, o, meglio, non realizzarlo svoltando verso il populismo neoperonista, significa far regredire l’Italia verso un modello argentino.

Contratto fiscale. In Italia è degenerato sia per il peso eccessivo delle tasse sia per i troppi sprechi sia per il poco ritorno in termini di servizi pubblici. Chi invoca di far pagare le tasse comunque senza prima revisionare il contratto rendendolo sostenibile ed equo esibisce un’ideologia hegeliana di Stato etico-autoritario che già ispirò i modelli nazista e comunista. La democrazia liberale è  kantiana, contrattualista, cioè determina un modello fiscale attraverso il bilanciamento degli interessi. E quindi il diritto di definanziare lo Stato che non rispetta tale principio basico. Spero che la degenerazione neoperonista non arrivi al punto da poterla fermare solo con la rivolta fiscale.

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