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Carlo Pelanda: 2017-2-28La Verità

2017-2-28

28/2/2017

Dal welfare assistenzialista a quello d’investimento

Il salario di cittadinanza è una pericolosa fesseria. Pericolosa perché implica un modello di welfare che finanzia i deboli invece di trasformarli in forti, con il rischio di creare una società passiva, vegetale. Fesseria perché si basa su un’analisi sbagliata. La nuova rivoluzione tecnologica, in realtà, non riduce i posti di lavoro. Li elimina per le persone meno istruite, ma li aumenta per quelle con maggiori competenze, in particolare alfabetizzazione digitale e capacità di astrazione/creazione. La scelta giusta è quella di insegnare a tutti come partecipare attivamente alla nuova economia trainata dalla conoscenza, finanziando una (ri)qualificazione del capitale umano attraverso migliore formazione iniziale delle persone e nuovi sistemi di formazione continua. La scelta facile, e sbagliata, è rispondere all’ansia sociale dell’impoverimento e di un futuro selettivo offrendo un salario minimo, non-condizionato all’attivismo della persona. Purtroppo le offerte politiche, nell’ambiente europeo, sono sempre più attratte da questa scelta facile perché ritenute dotate di un forte consenso potenziale in una società spaventata. Per questo motivo è importante che sui media ci siano più voci critiche della scelta facile, ma anche capaci di mostrare quella giusta perché il problema dell’impoverimento e della disintermediazione tecnologica del lavoro c’è e sono necessarie soluzioni innovative.
Dati. In Europa le aziende stanno cercando centinaia di migliaia di lavoratori con competenze evolute e non li stanno trovando. Non ho il dato disaggregato per l’Italia, ma un consulto con aziende che stanno trasformando il loro modello produttivo e commerciale per adeguarlo ai nuovi standard tecnologici, in particolare quelli dell’Industria 4.0, ha rilevato un problema crescente di reperimento di competenze adeguate. Una ricerca condotta a Oxford stima che nei prossimi 10-15 anni circa la metà dei lavori ora svolti da umani – nei sistemi economici evoluti – saranno sostituiti da automi, sia in forma di operatore (semi)senziente ed autonomo sia in quella di programmi computerizzati con capacità di gestire in modo finalistico miliardi di interazioni e comunicazioni istantanee con altri sistemi, automi e persone. L’auto che si guida da sola, le prime prove della “Internet delle cose”, le app dei telefonini, ecc., sono esempi visibili a tutti, pur ancora primitivi, della tecnodiscontinuità in atto e della sua velocità. Andrebbe rallentata e regolata per evitare un impatto disintermediante sul lavoro? Nessuna azienda e/o nazione può rischiare di rallentare o regolare troppo il salto tecnologico perché chi lo compie guadagna un’efficienza tale da buttare fuori mercato chi non lo fa. Inoltre, l’aumento di produttività favorito dalle ipertecnologie risolverà il maggior problema delle società sviluppate: la stagnazione demografica, considerando che una popolazione crescente è la maggiore leva naturale per la crescita. Meno persone, ma ciascuna più produttiva perché inserita in un ciclo economico ipertecnologico, permetteranno più crescita con minore inflazione, così rendendo tendenzialmente espansiva e non restrittiva la politica monetaria. Non a caso, infatti, gli appelli più intensi, fin dagli anni ’90, per alimentare l’economia tecnologica con supereducazione di massa provengono dagli ambienti di ricerca delle Banche centrali. In sintesi: la giusta risposta all’irruzione dell’intelligenza artificiale è quella di aumentare quella umana perché non si può rallentare la rivoluzione tecnologica e non sarebbe utile il tentarlo.
Quali nuove competenze? L’offerta c’è già nelle università. Si tratta di far accedere tutti e non solo pochi a tali competenze, in nuovi modi, aggiungere alla (ri)formazione delle persone strumenti di pensiero astratto per dotarli di maggiore mobilità intellettuale – cioè di potere cognitivo in generale - e facilitare con incentivi la formazione all’interno delle aziende. Il punto più importante è che la gente l’ha capito mentre la politica e le istituzioni ancora no. Molti disoccupati stanno cercando di riqualificarsi, con la difficoltà di non trovare offerte adeguate di beni cognitivi, proprio per accedere alla domanda crescente di occupazioni con più competenza. C’è l’ansia sociale, ma anche una reazione attiva da parte della popolazione. Per questo la politica troverebbe più consenso di quanto ora pensa se proponesse una riallocazione dei denari fiscali - in situazione di meno tasse per favorire il dinamismo economico - dalla spesa inutile e/o assistenzialista all’investimento per (ri) qualificare ogni individuo. C’è un modello per tale nuovo “welfare d’investimento” che punta all’evoluzione cognitiva di massa nell’età della cibernazione? Permettetemi - anche per stimolare altri colleghi a presentare i loro lavori in materia - di citare due mie ricerche su tale oggetto/progetto: “Futurizzazione”, Sperling, 2003; “Il nuovo progresso”, Angeli, 2012.

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