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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2006-2-22il Giornale

2006-2-22

22/2/2006

Dalla strategia passiva a quella attiva

La società italiana sta passando dalla prevalente negazione della minaccia islamica al suo iniziale riconoscimento. Ma è ancora troppo generico. Ora è prioritario precisare quale siaesattamente la minaccia ed il criterio strategico per affrontarla.

Ricapitoliamo, brevemente. Quella in corso è una guerra civile intraislamica. Nella prima fase la regia strategica di Al Qaida ha esteso l’offensiva contro l’Occidente per dissuaderlo dall’interferire. Più pesantemente contro l’America e meno contro l’Europa proprio per separarli, incentivando la seconda a restare neutrale. Fino al 2005 la minaccia è stata contenuta con buona efficacia dal forte contrasto americano ed alleato. Ma ora la guerra civile sta entrando in una seconda fase. Al Qaida, pur quasi eliminata sul piano del comando centrale, è riuscita a seminare gruppi in franchising dovunque. L’idea di guerra santa islamica ha affascinato altre èlite e movimenti come strumento di conquista del potere, dappertutto. Soprattutto, la novità è che l’Iran si è messo in concorrenza con Al Qaida per guidare la guerra santa (Jihad) e così tentare di diventare la potenza guida islamica. Che tale mossa serva a consolidare via aggressività esterna il regime degli ayatollah in grave crisi interna non riduce il problema, anzi. Di fatto l’Iran sta aizzando i movimenti e gli Stati che influenza (Hezbollah, Hamas, Siria ecc.) per mostrare all’America ed all’Europa che potrebbe incendiare una buona fetta di Islam in caso di pressione limitativa contro Teheran. Gli estremisti non filo-iraniani stanno anche loro aumentando la mobilitazione, si pensa in competizione, ma non è escludibile una alleanza futura. Il risultato è l’aumento improvviso della pressione fondamentalista complessiva sui regimi moderati e filo-occidentali, dalla Turchia all’Egitto, dal Pakistan alla Giordania, ecc.. Il punto: l’ondata estremista ha superato la scala dei piccoli gruppi ed è diventata di massa. Sempre più popolazione aderisce ai messaggi mobilitanti di quello o altro jihadista. Ciò avviene anche nelle comunità islamiche insediate in Europa. Il punto: i registi dello Jihad si sono accorti che, più e meglio del terrorismo dimostrativo, possono usare le masse come risorsa strategica. I regimi moderati islamici sono costretti ad accontentare il radicalismo per tentare di sedarlo. E chiedono ai governi occidentali di non fare nulla che li metta in difficoltà perché ora è alto il rischio che possano cadere come birilli. Questo è il problema. Due soluzioni: (a) confidare sul fatto che l’eccitazione di massa si spenga anche perché il mantenerla  – vedi il caso strumentale delle vignette – ha un costo notevole per i rivoluzionari, non sostenibile a lungo; (b) intervenire più decisamente nella guerra civile intraislamica a sostegno dei moderati. La prima è quella in corso più che altro perché America ed Europa, ed europei tra loro, non sono organizzati per una strategia attiva comune. Ma i dati fanno sospettare che, se non contrastata, l’ondata, pur calmandosi nelle apparenze, resti e si diffonda allo stato latente, anche nelle comunità in Europa. Se confermati, allora sarà inevitabile passare da una strategia passiva ad una attiva. Il cui aspettopiù rilevante è il seguente: dovremo, necessariamente, definire dei criteri che separano l’islamico “buono” da quello “cattivo” in modo da includere il primo nel perimetro di difesa e sostegno dell’Occidente così incentivandolo a combattere, meglio attrezzato, contro il secondo o a non lasciarsi sedurre dal suo lirismo fondamentalista. In sintesi, non si tratta di guerra tra civiltà o religioni, ma di una guerra civile entro una civiltà e religione: l’Islam. Poiché i cattivi potrebbero vincere creando per noi un pericolo inaccettabile esterno ed interno dobbiamo prepararci all’idea di prendere parte a questa guerra e, conseguentemente, di definire chi e cosa sia l’Islam buono, alleato, contrapposto a quello cattivo, nemico. Per tale strategia sarà necessario il contributo dell’opinione pubblica in quanto il criterio di separazione tra buoni e cattivi dovrà essere praticato anche nelle nostre strade, con intelligenza.  

(c) 2006 Carlo Pelanda
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