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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2004-11-16Il Foglio

2004-11-16

16/11/2004

Progetto neodem

La settimana scorsa si sono riuniti thinktanker e ricercatori neodem di diverse nazioni per valutare se fosse il caso o meno di “fare sul serio” nel proporre l’instaurazione di democrazie funzionanti nei 200 paesi del pianeta. A questi piani della ricerca, diversamente dai cugini neocon, si è disposti ad abbandonare il realismo pragmatico (adattamento) per quello etico (interventismo, direzionalismo storico) solo in base a prove di utilità e fattibilità. Prima domanda: quanto la democrazia è utile? La varietà di opinioni in essa ostacola politiche aggressive. I modelli democratici favoriscono la diffusione sociale della ricchezza perché i poveri possono votare. Ma, per tale caratteristica, possono impedire la prima fase di sviluppo di un paese povero che richiede uno squilibrio sociale? La vecchia dottrina economica – anni ’50 – fa pensare di sì e prescrive “sviluppo prima e democrazia dopo”, criterio che ancora ispira sia la Banca mondiale sia il Fmi. Ma oggi la globalizzazione compra la povertà perché riesce a trasformarla in competitività. Cosa che non succede se ci sono dittatori, corruzione e mancano un minimo di educazione e welfare. Si può pensare ad un modello di “democrazia prima” che favorisca la capitalizzazione veloce degli Stati poveri e poverissimi (55)? La sensazione è che si possa. Più netta quella che dopo la prima fase caotica di sviluppo la democrazia sia utile per consolidarlo. Per esempio, una pressione democratizzante più forte sulla Cina sarebbe utile per loro e per il globo intero. Seconda questione: ipotizzata un’alta utilità va valutato, con criterio costi/benefici, quanto sia fattibile portare la democrazia in tutte le nazioni dove non c’è o non sia pienamente funzionante (130 circa). Qui lo scenario si mostra impervio: senza una fortissima pressione esterna la democrazia non si sviluppa da sola perché è un prodotto specifico della storia occidentale. E tale pressione rischia di dover ricorrere alla guerra, evidentemente un costo che annulla l’utilità. Ma nuove ricerche fanno ipotizzare che quando la gente di altre culture vede la possibilità della democrazia la prende perché piace. L’ipotesi che si possano formare partiti locali democratizzanti cambia lo scenario precedente: non occorre fare la guerra per democratizzare, basta incentivare e sostenere finanziariamente movimenti interni. Cosa che rende, in ipotesi, meno rischiosa la pressione democratizzante. Ora si tratta di approfondire e dettagliare tali ipotesi e trasformarle in strategia. Questa rubrica prega i ricercatori italiani che sentono la missione neodem di dare un contributo.    

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