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Carlo A. Pelanda
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2009-1-26

26/1/2009

Obama risolverà i guai americani ma non i nostri

La parte maggiore delle risorse anticrisi nell’eurozona viene e verrà dedicata agli ammortizzatori sociali. Tale modello di intervento ha formule diverse in Francia, Germania ed Italia, ma, in sostanza, impiega il denaro pubblico per pagare gli stipendi ai lavoratori che le aziende non possono più erogare per la caduta delle vendite. Se la crisi recessiva durasse più di qualche mese ci sarebbe denaro sufficiente per continuare tale formula d’aiuto? No e bisognerebbe finanziarla con debito crescente. Pertanto siamo vulnerabili alla durata della crisi. In relazione a questo rischio gli Stati dell’eurozona dovrebbero varare in parallelo altre misure di stimolo attivo all’economia per pomparne la ripresa e così ritrasferire l’onere dei salari in sofferenza dallo Stato al mercato. Per esempio, un mix di investimenti pubblici e riduzione delle tasse che, combinato con la riduzione del costo del denaro, darebbe un impulso al mercato. Gli investimenti non sono – al momento - in proporzione al fabbisogno stimolativo. Di detassazione manco si parla. Il taglio dei tassi monetari finalmente è in atto, ma non ancora nella misura giusta. Perché? Per prevalenza di sbagliate idee socialistoidi sull’economia combinate con l’idealismo monetario, ambedue difficilmente modificabili per mancanza di consenso. Ciò significa che l’eurozona è configurata per assorbire l’impatto della crisi limitando i licenziamenti, ma non per invertirla facendo più crescita nel proprio mercato interno. Quindi resta in attesa, incrociando le dita, che qualcun altro faccia ripartire il mercato globale e le esportazioni.

Il “qualcun altro” sono l’America e l’Asia. Ma la seconda dipende dalla prima ed ha poca capacità di crescita interna alternativa a quella trainata dalle esportazioni. Quindi tutto il peso del rilancio dell’economia globale resta sulle spalle dell’America. Ciò spiega le concentrazione inusuale di attese salvifiche sul povero Obama. Da un lato il nuovo presidente ha l’interesse di portare gli Stati Uniti fuori da una terribile crisi, anche personale in relazione alla chance di rielezione nel 2012. Dall’altro, la crisi americana, epicentro di quella globale, è dovuta ad un cedimento strutturale del sistema, in particolare il finanziamento a debito (privato) della crescita dei consumi interni. I megastimoli promessi da Obama in termini di investimenti pubblici e detassazione saranno sufficienti a rimettere in crescita l’America entro l’estate e ad iniziare a riassorbire la disoccupazione. Ma la crisi bancaria, così come quella altrettanto grave e collegata del mercato immobiliare, avrà tempi di soluzione più lunghi. Inoltre il consumatore americano, pur sempre voglioso di comprare qualsiasi cosa e di più nel rito quasi mistico dello shopping, dovrà ricostruire il proprio monte di risparmio e un paio d’anni al minimo ci vorranno. Questo vuol dire che alla ripresa dell’America non necessariamente corrisponderà un analogo incremento delle importazioni dall’Asia e dall’Europa. In tale scenario di ripresa debole e lenta della domanda globale – tre anni – la formula europea anticrisi detta sopra non funzionerà, provocando sia un dissesto dei bilanci statali (già in avvio) sia una situazione di crisi endemica. L’unico modo per evitarlo è quello di cambiare il modello economico riducendone la dipendenza dalle esportazioni e aumentando la capacità di fare crescita interna smontando il vecchio stato sociale e ricostruendone uno nuovo adatto a fare più crescita. Per ottenere il consenso bisognerà finanziare tale transizione a debito e ciò significa modificare il sistema dell’euro o abbandonarlo.

(c) 2009 Carlo Pelanda
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