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Carlo A. Pelanda
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2005-3-14

14/3/2005

Non dazi ma riforme

 La Lega ha il merito politico di aver segnalato l’urgenza di fare qualcosa per le imprese italiane massacrate dalla crescente concorrenza globale per costo, in particolare quella cinese sui prodotti tessili/abbigliamento e calzaturieri, ma il demerito tecnico di aver proposto una soluzione inefficace e controproducente: i dazi.

 Si tende a credere che la concorrenza cinese sia in “dumping”, che vuol dire vendere ad un prezzo inferiore al costo di produzione per conquistare quote di mercato. Vi è certamente una parte di concorrenza veramente sleale basata sulla contraffazione dei marchi e questa va combattuta con azioni di polizia. Ma, una volta risolto questo aspetto, la massa maggiore di esportazioni cinesi resterebbe competitiva non per “dumping”, ma per il semplice fatto che vengono favorite da costi del lavoro, logistici, del capitale e fiscali immensamente inferiori a quelli esistenti in Europa. Le tasse sono minori perché non c’è uno Stato sociale né sistemi sanitari e previdenziali da finanziare  I cinesi, come altri Paesi in via di sviluppo, partono da condizioni di estrema povertà e sono ben felici di guadagnare 100 euro al mese, contro i più di 2.000 di costo lordo – livello minimo - di un lavoratore per un’impresa italiana, perché pochi anni fa ne riuscivano ad intascare 10 o meno. Con questo voglio dire che non si tratta di “concorrenza sleale”, ma di concorrenza pura e semplice per condizioni di sistema. E significa, come qui ribadito più volte, che chi si trova a produrre le stesse merci producibili in Paesi dove i costi sistemici sono minori è condannato ad andare fuori mercato. Infatti, le imprese italiane, come quelle europee ed americane, tentano di uscire da questa trappola andando loro stesse a produrre in aree a minor costo (delocalizzazione) o a qualificare i loro prodotti in modo che sfuggano alla concorrenza per puro costo. Parecchie ci stanno riuscendo, altre no, e ciò lascia senza lavoro un numero crescente di lavoratori, anche se non in numeri ancora preoccupanti. Ma che lo diventeranno presto se non si trova una soluzione efficace. Quale? La risposta più istintiva da parte di chi si vede a rischio è quella del “panico”: mettiamo dazio, chiudiamoci. Ma così facendo si espongono a ritorsioni i lavoratori in imprese di altro settore che esportano nei Paesi emergenti e, se si generalizza il protezionismo, si rischia di ridurre il volume del commercio globale, impoverendo tutti. Se i cinesi tornano poveri perché noi ci proteggiamo da loro poi non compreranno altre nostre merci.  Ciò è tanto chiaro nei modelli economici da far rifiutare ai governi l’opzione istintiva. Ma questi devono anche dare risposte concrete a chi è in ansia. L’unica efficace è quella di favorire la sostituzione delle imprese e settori non concorrenziali con nuovi che lo siano: (a) accelerando le riforme di efficienza che riducono i costi sistemici (energetici, fiscali e logistici) per le imprese e favoriscono, più degli incentivi diretti, la nascita di nuove in settori evoluti meno esposti alla concorrenza per semplice costo; (b) sostenendo con assistenze e benefici temporanei il transito dei lavoratori dai settori vulnerabili verso quelli nuovi. Un mercato senza vincoli si adegua naturalmente al nuovo. Ci vorrà anche una politica estera finalizzata ad ottenere più assorbimento del nostro export da parte dei Paesi emergenti (ora troppo protezionisti), alzare gradualmente i loro costi sistemici imponendo la democrazia e conseguenti maggiori tutele sociali. Ma è la rapida riorganizzazione competitiva interna che risolve il problema nell’immediato. L’unica soluzione efficace, infatti, è quella di velocizzare il cambiamento, non ce ne sono altre che funzionino.    

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