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Carlo A. Pelanda
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2004-3-23

23/3/2004

Situazione da terapia d’urgenza

L’economia italiana ristagna perché c’è poco impulso alla crescita interna e le esportazioni calano. Non è recessione, ma una stagnazione che dura da due anni e che potrebbe ripetersi anche nel 2004 (siamo, per ora, proiettati verso un aumento del Pil attorno all’1%) segnala una malattia che richiede una terapia d’urgenza. 

Per tentare di capire quale è utile la lista, per ordine di rilevanza strutturale, dei motivi che deprimono l’economia. Quello principale, di solito il meno commentato, è dovuto alla crisi demografica. Meno figli e giovani rallentano l’aumento quantitativo delle attività economiche interne. Il secondo riguarda un modello politico che porta tali costi e pesi burocratici  all’attività di impresa da soffocarla. Cosa che ha messo il Paese in una tendenza di deindustrializzazione e che ingigantisce l’effetto del terzo problema, la perdita di competitività internazionale. Aggravata, quarto fattore, dal fatto di essersi infilati in un modello europeo che impedisce il cambiamento competitivo rendendo rigide le politiche di bilancio in un  momento in cui dovrebbero essere più flessibili per sostenere le stimolazioni, in forma sia di detassazioni sia di investimenti pubblici. L’effetto combinato di tali cause ha reso sempre più debole l’economia italiana  - ed anche quelle tedesca e francese che soffrono dei medesimi problemi -  dai primi anni ’90 in poi. Ma, dal 1992 al 2000, il problema è stato nascosto e bilanciato da tre condizioni esterne favorevoli: la grande crescita del mercato globale avvenuta in quel periodo, la competitività valutaria e dell’euro (fino al 2002) che permise di bilanciare con l’export il declino dell’economia interna e di cogliere l’effetto traino della locomotiva globale, cosa favorita dal fatto che non erano ancora emersi nuovi competitori mondiali, quali la Cina e L’India. Dal 2001 in poi queste condizioni si sono invertite a nostro svantaggio ed i difetti struttali hanno dispiegato il loro effetto di soffocamento.  

Tale fotografia mostra che non sarà né facile né veloce cambiare la situazione. Per invertire la crisi demografica ci vorranno dai 10 ai 15 anni cominciando ora sia ad importare più immigrati sia a ridurre i costi delle famiglie per il mantenimento dei figli. La riduzione dei pesi politici sull’economia e dei costi statali trova dissensi tali da non far sperare in riforme, e quindi detassazioni sostanziali, in tempi ravvicinati. Senza di queste non c’è l’incentivo per nuovi investimenti che sostituiscano i settori economici non competitivi con altri che potranno esserlo. Così il sistema è bloccato e decade. Per sbloccarlo in tempo appaiono possibili solo due azioni: (a) ridurre il valore di cambio dell’euro per aumentare le esportazioni dell’eurozona e grazie a queste puntare ad un Pil italiano vicino al 3%, in modo tale da poter cominciare a ridurre le tasse, almeno un po’, alla fine del 2004 e così sortire un effetto ottimismo che dia le risorse per iniziare il lento e travagliato percorso delle riforme più incisive; (b) accelerare gli investimenti infrastrutturali per far girare il settore delle costruzioni in modo tale che compensi il declino di altri, pompando la domanda interna, fino a quando sarà possibile una ri-industrializzazione più avanzata. E’ molto deludente dover scrivere che ci resta solo la svalutazione competitiva e più mano pubblica per tornare a respirare, ma non ci sono altre mosse fattibili ed efficaci in tempi brevi. Tuttavia, se la Banca centrale europea volesse concederci la prima – il governo sta praticando la seconda – ce la faremmo a rimetterci in piedi. Ma la Bce sta ferma e ciò fa rimpiangere la sovranità monetaria che cedemmo troppo frettolosamente.   

(c) 2004 Carlo Pelanda
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