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Carlo A. Pelanda
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2003-12-1

1/12/2003

Euro in trappola

Nel mercato globale c’è una gara a chi tira più in basso la moneta per favorire la propria economia sul lato dell’export e dell’attrazione di investimenti diretti. Del tutto intenzionale da parte di Pechino, che ci riesce benissimo. Anche intenzionale da parte di Tokyo, ma che ci riesce di meno in quanto lo yen è spinto verso l’alto dal ritorno di un po’ di crescita. Semi-intenzionale da parte degli Usa che ci riesce più di quanto Washington in realtà vorrebbe. Ma il risultato sostanziale per l’euro è che il valore di cambio della moneta non solo non rappresenta la situazione dell’economia reale, ma anche la danneggia notevolmente. Un’economia molto rigida come quella continentale ha come unico sfogo le esportazioni per crescere, ma se la moneta è troppo alta le deprime. Da qui l’interesse a capire se e quando vi potrà essere un riequilibrio dei cambi più a favore degli europei.

Prima di parlarne chi scrive desidera segnalare che, in teoria, una moneta forte sia come credibilità sia come valore di cambio (le due cose non coincidono) è la miglior situazione che un sistema economico possa augurarsi. Cioè il non dover dipendere dalla competitività valutaria per crescere in quanto si è così efficienti e sani dal non averne bisogno. Purtroppo il modello economico europeo non è né efficiente né sano e quindi l’euro troppo alto va visto, fuori dalla teoria ottimale, come una vera e propria trappola.

Perché il dollaro è così basso? La risposta principale va cercata nei fattori che determinano i flussi di capitale. I tassi monetari negli Usa sono bassissimi (1%), quelli dell’eurozona più alti. Ciò significa che la rendita nominale di un titolo, “bond” pubblico o privato, è più elevata se denominata in euro. Ed il mercato compra più euri che dollari riducendo il valore comparativo dei secondi. Ma potrebbe sorprendere il fatto che in un’economia che sta crescendo a ritmi stratosferici come quella americana, con poca inflazione e con incrementi di produttività (valore del prodotto in un’ora di lavoro) enormi  i tassi restino minimi generando così una buona parte dell’effetto di svalutazione competitiva. In queste settimane ci si potrebbe aspettare che chi ha euri, prevedendo negli Usa sia crescita delle Borse sia un aumento dei tassi per contenere il rischio di inflazione da crescita, compri adesso titoli e azioni in dollari mirando al momento in cui la moneta americana rimbalzerà raddoppiando così i profitti. Ma il mercato non crede ancora a questa previsione che riporterebbe l’euro a valori più equilibrati attraverso il ribilanciamento o inversione dei flussi di capitale.

Perché? Si pensa che l’autorità monetaria americana (Fed) voglia sostenere la crescita mantenendo ancora a lungo i tassi minimi. Ciò è razionale in quanto non c’è ancora una fortissima ripresa degli investimenti e la crescita è alimentata da tagli delle tasse e dal costo basso del denaro. L’inflazione è poca, la produttività (che comprime le tendenze inflattive) è stellare, il prezzo del petrolio è in dollari (quindi non fa importare troppa inflazione) e pertanto la Fed preferisce prendere un pelo di rischio in più sul lato dell’inflazione che non su quello della deflazione. Più semplicemente, ha paura che rialzando i tassi possa uccidere la crescita. In questo confortata anche dal fatto che le industrie americane sono ancora lontane dal saturare il loro potenziale produttivo oltre il quale scatta l’aumento dei costi e dei prezzi. In sintesi, l’America può crescere tanto senza alzare il costo del denaro almeno per quattro – sei mesi. Quindi il mercato non ha l’interesse immediato a tornare sui dollari.

Inoltre molti nel mercato temono che il dollaro possa abbassarsi ancora a causa dell’elevato deficit del bilancio federale combinato con quello commerciale. Cioè dal fatto che le importazioni sono più delle esportazioni e tale sbilanciamento può essere compensato solo da un flusso di capitale globale che torna in America convertendosi in dollari. Se tale flusso non arriva perché il dollaro non è attrattivo allora la moneta può crollare. Chi teme questo scenario, pur improbabile, resta in euro. Poi c’è il punto più difficile da commentare, ma forse il più importante. L’Amministrazione Bush vuole arrivare alle elezioni del novembre 2004 con un’economia che tira e, soprattutto, con una ripresa visibile dell’occupazione. Che sta avvenendo, ma lentamente e non nel settore manifatturiero. Cosa che toglie consenso nelle aree industriali mettendo a rischio elettorale alcuni Stati degli Stati Uniti necessari a Bush per affermarsi. Infatti sta facendo manovre disperate per aiutare tale settore: dollaro superbasso per aiutare l’export, manovre protezionistiche (contro la Cina) per limitare una concorrenza incontenibile e relativa delocalizzazione.

Sommando tutto questo, possiamo tentare di prevedere che il dollaro sarà premuto verso il basso almeno fino all’estate. Ma la Fed non può permettersi di tenerlo così compresso per tanto tempo proprio per il rischio di non poter ribilanciare il deficit commerciale. Quindi una prima e molto azzardata ipotesi potrebbe vedere il riequilibrio di cambio verso marzo-aprile. Tutta questa complicazione sarebbe semplificabile se la Banca centrale europea riducesse i tassi al livello di quelli americani. Andremmo 1 a 1 circa tra dollaro ed euro e per noi sarebbe meglio di adesso. Perché non lo fa? 

(c) 2003 Carlo Pelanda
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