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Carlo A. Pelanda
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2003-5-5

5/5/2003

Riparazione della locomotiva

Poiché l’eurozona non ha forza di crescita propria – e le economie di Francia e Germania confermano desolanti tendenze recessive dovute alla rigidità del protezionismo sociale – tutti sono in attesa che la locomotiva economica americana riprenda a correre e traini, con più importazioni, gli scassati vagoni europei. E’ imbarazzante anche per chi analizza e scrive dover sempre fare riferimento a mamma America per tutto ciò che riguarda ricchezza e sicurezza globale. Piacerebbe, francamente, poter valutare la competizione convergente tra le due sponde dell’Atlantico per vedere chi ha l’economia più vitale, le idee più innovative, in una gara tra forti. Ma la realtà è quella che è. Con l’unica buona notizia che il modello politico italiano, pur gravato delle stesse rigidità degl altri eurpartner, mostra qualche segno iniziale di riformismo modernizzante. Tuttavia, ciò non cambia lo scenario di breve e medio periodo: saremo più poveri o più ricchi in base all'effetto sistemico prodotto dall’economia statunitense.

Cosa possiamo prevedere al riguardo, in base agli ultimi dati? Prima ve li sintetizzo, poi tenterò di vedere qualche dettaglio chiave. Al momento – ma l’instabilità delle tendenze lascia sempre aperte revisioni in un senso o nell’altro - è molto probabile che la ripresa americana sia lenta e raggiunga un punto dopo il quale ci sarà una maggiore "velocizzazione" ed intensità della crescita, tra luglio e ottobre. Tale dinamica non fa prevedere che le buone conseguenze arrivino da noi prima della fine del 2003. In termini di crescita del Pil, probabilmente, gli Usa finiranno l’anno in "accelerazione", attorno al 3% (che è poco per quell’economia il cui potenziale di crescita non inflazionistico è sul 4,5%) e l’eurozona un po’ più su o giù dell’1%. Non sufficiente, si teme, nemmeno a mantenere in equilibrio l’occupazione che c’è. Nessun disastro, intendiamoci, ma lo scenario è grigio.

E lo è non solo per la lentezza – secondo i loro parametri - della ripresa negli Usa, ma anche per la possibilità che il suo effetto traino esterno sia minore del solito. Perché? In realtà l’economia americana non mostra grandi problemi strutturali. Il costo del denaro è minimo, la flessibilità enorme, l’inflazione bassa, la produttività (basata sulla modernizzazione tecnologica) crescente nonostante tutto. Il problema è psicologico: il mondo economico statunitense ha sufficiente fiducia per gestire un’attività normale, ma non ancora quella di tipo ottimista per investire e spendere ai ritmi elevati che potrebbe praticare. E il come si possa riparare questa parte del motore della locomotiva non lo sa nessuno. Ci ha provato l’autorità monetaria riducendo i tassi (che rendono, per esempio, i mutui di una casa minimi, poco più del 3%, liberando così più spesa per i consumi). Ma se uno non ha ottimismo non c’è manovra monetaria che tenga, pur stimolo utile e comunque necessario nella fase bassa di un ciclo economico. Nei prossimi giorni ci proverà nuovamente l’amministrazione Bush a ridurre sostanzialmente ancor di più le tasse. Aiuterà di certo, e senza di questo non si potrebbe sperare in buon rimbalzo futuro, ma non è il punto principale. Cosa lo è? Dopo le crisi devastanti – per risparmiatori ed investitori - del dopobolla e dell’11/9 solo il tempo può guarire il pessimismo, le ferite non ancora ben cicatrizzate. Non c’è altro da fare che lasciare che questa parte del motore si aggiusti da sola attraverso qualche mese di assenza di cattive notizie. Poi l’ottimismo tornerà. Ma difficilmente sarà così elevato, proprio in base alle botte date alla fiducia negli ultimi tre anni, da stimolare quegli investimenti spericolati che crearono, negli anni ’90, il boom di crescita e di nuova occupazione e relativo effetto globale. Inoltre – e questo mi preoccupa di più – pesa in America la punizione subita da chi ha puntato su settori tecnologici rivoluzionari. C’è il dubbio che prima di lanciarsi nella costruzione di nuove imprese basate su nuovissime tecnologie il mercato finanziario ci pensi tre volte. Poi alla quarta entrerà, cioè nulla impedisce di pensare che il capitalismo tecnologico riprenda la sua corsa. Ma ci vorrà ancora del tempo, assumendo che la Sars non si trasformi in un nuovo disastro economico e che non vi siano brutte sorprese terroristiche e simili in qualche scacchiere del mercato globale sotto stress.

Con una complicazione per noi europei non da poco. Nel caso migliore – buon traino dalla fine del 2003 in poi – la locomotiva americana ha comunque bisogno di un dollaro piuttosto basso per favorire il suo settore manifatturiero sul piano della competitività valutaria, cioè per reggere meglio la concorrenza estera in casa ed esportare di più. La stimolazione fiscale propugnata da Bush, poi, aumenterà il deficit annuale del bilancio pubblico americano, pur tenendolo entro limiti di ampia sicurezza, e ciò non favorirà l’afflusso di capitali sul dollaro. Così come non lo faranno i tassi più elevati dell’euro – che favoriscono i titoli a reddito fisso europei contro i "bond" americani – in assenza di grandi boom nei valori azionari denominati in dollari. Quindi per un certo periodo dovremo aspettarci un euro intrappolato in un valore di cambio con il dollaro piuttosto punitivo per le nostre esportazioni. E ciò, pur nella riparazione della locomotiva americana, tarderà ancor di più l’effetto traino sull’eurozona. Almeno questa parte dello scenario potrebbe essere migliorata da un sostanziale e rapido taglio dei tassi da parte della Bce. Ma l’autorità monetaria europea è al momento indifferente alla realtà

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