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Carlo A. Pelanda
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L'%20Arena

2003-1-13

13/1/2003

La difficile priorità del rilancio dell’economia

Nel corso del 2003, ed in particolare nei primi mesi dell’anno, i governi sia americano sia europei avranno la priorità assoluta di stimolare la crescita economica, a tutti i costi. Infatti un altro anno di stagnazione, nell’eurozona, o di crescita pur robusta del Pil, come in America (2,5% nel 2002), ma senza nuovi investimenti (causa principale dell’aumento della disoccupazione) potrebbe avere conseguenze pericolose: orientare l’economia globale verso uno scenario recessivo con rischi di una successiva "depressione" duratura. Fortunatamente tale caso peggiore ha, per il momento, poca probabilità. Mentre quello di una buona ripresa a metà, o forse prima, del 2003 ne ha molta di più, come qui argomentato un paio di settimane fa. Tuttavia, va sottolineato che senza dei segnali forti da parte dei governi a sostegno dell’economia il rischio aumenta. Di ciò sono consapevoli tutti i governanti ed è importante valutare, pur per cenni, cosa stiano facendo.

Vediamo prima il caso americano, il più rilevante in quanto riguarda la locomotiva del ciclo mondiale. L’Amministrazione Bush sta tentando il tutto per tutto. Ha sostituito il ministro del Tesoro ed il consigliere presidenziale per l’economia allo scopo di chiudere la crisi di credibilità sulla capacità di governare il sistema. Soprattutto, ha varato un maxipiano di riduzione fiscale: quasi 700 miliardi di dollari, pensateli equivalenti agli euro, in dieci anni. Ma con il beneficio di lasciare nel breve periodo nelle tasche della classe media qualcosa come mille dollari in più all’anno a favore dei consumi. Bush viene criticato da molte fonti tecniche (Financial Times) e politiche (sinistra statunitense) per questa mossa. In sintesi, le prime temono il rischio di nuovo indebitamento pubblico eccessivo e le seconde la riduzione di denari assistenziali. In realtà la mossa è tecnicamente adeguata e politicamente di emergenza: dare più soldi da spendere al gruppo sociale più rilevante per la tenuta dei consumi. La perplessità, invece, riguarda il fatto che tale mossa potrebbe non bastare. La riduzione fiscale è sempre la miglior misura per stimolare un’economia. Inoltre, sono state ridotte le gabelle sui guadagni di capitale per incentivare il pubblico a tornare nelle Borse ormai disertate. Ma potrebbe non bastare perché il rallentamento del mercato è più dovuto a fattori psicologici, cioè a dimensioni che non sono governabili con mezzi ordinari e solo tecnici. Prova ne è, per esempio, che il sistema non reagisce come al solito agli stimoli di politica monetaria (tassi bassissimi). L’Amministrazione, appunto, lo sa e spera che una defiscalizzazione così forte produca una sensazione generale di fiducia sul fatto che il futuro sarà migliore (espansivo). Tuttavia dobbiamo registrare che tale effetto rassicurante non è ancora riscontrabile. Pesa ancora la botta presa dalla gente dopo lo sgonfiamento della bolla. Ed è inevitabile che la psicologia di massa sia colpita dai venti di guerra. In sostanza, la ripresa americana dipenderà moltissimo dalla capacità di Bush di convincere l’America "profonda" che il sistema è forte, sicure e sano. E’ un problema di conduzione più simbolica che tecnica dell’economia.

Per l’Europa, pur comune l’aspetto psicologico, la priorità è più verso il lato tecnico. Il modello economico non è predisposto, come quello statunitense, a creare ricchezza. Senza il polmone dell’export verso l’area del dollaro il sistema non ha forza motrice propria (consumi ed investimenti espansivi). Quindi prevale l’urgenza di riformarlo per farne respirare l’economia. Tutti gli uffici studi degli eurogoverni sono al lavoro per cercare misure stimolative. Ma dovunque guardino trovano che le riforme di efficienza (meno tasse, più concorrenza, meno protezioni sindacali, ecc.) hanno un’alta di trovare un’opposizione sociale formidabile. Per cui c’è un momento di forte ansia, sia nelle compagini di centrodestra sia di centronistra, perché il tentare riforme avrebbe un prezzo politico altissimo, ma il nontentarle, questa volta, manderebbe in crisi totale le nazioni. Il welfare europeo è morto come modello, ma nessuno sa come sia politicamente possibile cambiarlo pur nella consapevolezza di doverlo fare nella massima urgenza. Con due complicazioni. Il Patto di stabilità che irrigidisce le manovre di bilancio utili alle riforme. La crisi tedesca che tira giù tutta l’Europa (all’Italia potrebbe costare quasi 2 punti di Pil annui). Anzi tre: il governo tedesco di sinistra ha maggiori difficoltà a dire ai propri elettori che le garanzie sono in eccesso, insostenibili e controproducenti. In questo quadro, tra le grandi economie dell’eurozona, possiamo forse aspettarci qualche mossa stimolativa robusta dall’Italia il cui governo riformatore ha una maggioranza amplissima in Parlamento e, volendo, potrebbe fare quello che vuole e presto. Ma l’esperienza del 2002 mostra che la piazza riesce ad ostacolare le riforme e che la sinistra o non intende cooperare per superare l’emergenza oppure e troppo disunita per farlo. La Francia si sta spostando un po’ verso politiche liberalizzanti, ma nel migliore dei casi non riuscirà comunque a trainare l’eurozona. Quindi lo scenario delle stimolazioni resta molto incerto in relazione al quadro europeo. Certamente aumenterà l’attivismo riformatore, ma non si sa se riuscirà ad ottenere il consenso necessario. In conclusione, per l’ennesima volta sarà ciò che succede in America a salvare il ciclo economico o meno.

 

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