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Carlo A. Pelanda
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2002-8-26

26/8/2002

Un vertice inconcludente ma utile

Si apre oggi a Johannesburg, sotto l’egida dell’ONU, il vertice mondiale sull’ambiente (Earth Summit). Il dibattito e le cronache si concentrano sulla sua rilevanza, per lo più mettendola in dubbio. In queste grandi assemblee mondiali tendono a prevalere i contenuti di Paesi con interessi contrastanti con, od ostili a, quelli occidentali. Con la complicazione che in materia ambientale le posizioni di Usa ed Ue divergono sempre di più. Quindi l’intensità della partecipazione americana ed europea a questi consessi che precorrono una sorta di Parlamento globale è una questione molto delicata. Gli Usa non vogliono legittimare un forum che potrebbe metterli in minoranza, ma non possono disertarlo per il rischio di isolamento. E hanno deciso di inviare Colin Powell, ministro degli esteri, e non Bush, per segnalare rispetto, ma non legittimazione. Agli europei non dispiace mettere un po’ in difficoltà gli Usa, e molti parteciperanno ai massimi livelli di rappresentanza, ma sentono di dover essere molto cauti per non incrinare oltre misura la coalizione occidentale. In sintesi, la rilevanza del vertice è indebolita dal fatto che non c’è ancora un accordo di base sugli standard comuni per una politica ambientale globale. Ciò introduce il punto che vorrei porre qui: possono questi summit globali - quello in corso avrà risultati solo nominali - diventare in futuro uno strumento di convergenza tra nazioni per politiche comuni, in particolare sulla materia ambientale che è quella più chiaramente globale?

Dello stesso tema si discusse più di dieci anni fa quando in ambito Onu fu lanciato il primo Earth Summit che poi si tenne a Rio De Janeiro nel 1992. Se mi permettete un ricordo personale, dal 1988 al 1990 lavorai in un gruppo di consiglieri scientifici che doveva aiutare l’allora Segretario generale dell’Onu (Xavier Perez De Cuellar) a fissare i lineamenti di una politica globale per la prevenzione delle catastrofi naturali ed ambientali. Il mio ruolo era di rango minore, solo tecnico: dovevo mettere a punto uno schema che mostrasse come e quanto la spesa per la prevenzione fosse un risparmio in relazione ai costi per la ricostruzione dopo un disastro. Lo feci, ma accompagnando lo studio con una nota scettica: tale razionalità tecnica non servirà comunque a convincere i governi. Perché la prevenzione implica la modifica di interessi in atto delle popolazioni e costi senza la percezione del rischio e ciò rende difficile il consenso, quindi improbabile l’azione preventiva dei governi stessi. Fui colpito da quanto mi disse Frank Press, geofisico, allora presidente dell’Accademia americana delle scienza (Nas), leader del gruppo in cui operavo: “ …non importa, in questi luoghi dove si forma il linguaggio globale dobbiamo restare ancorati alla razionalità, nonostante la sua infattibilità politica contingente, perché nel futuro prevarrà come standard planetario”. Gli risposi che mi pareva un po’ troppo ottimista. E lui ribatté dicendomi “..forse, ma il compito dell’Onu è quello di creare occasioni dove tutte le culture politiche e tecniche del mondo imparino a dialogare”. Nei corridoi dove si affacciava la sala in cui avvenne tale conversazione altri esperti stavano valutando l’agenda in costruzione per il vertice di Rio del 1992. Molti dicevano che sarebbe stato inutile in quanto i Paesi emergenti non avrebbero mai accettato di limitare il loro sviluppo  in base a standard ecologici appartenenti alla sensibilità dei paesi già sviluppati. Altri sostenevano che si rischiava di offrire un palco a teorie ambientaliste troppo estreme, quasi mistiche, oltre che ai catastrofisti. Altri ancora che si trattava solo di dare un contentino ai verdi che stavano diventando influenti nei paesi avanzati. Inoltre alcuni concetti base, per esempio quello di “sviluppo sostenibile”, erano molto ambigui sul piano tecnico. Il capitalismo è di per se squilibrato, tutta la storia umana mostra che la nostra specie sopravvive modificando l’ambiente a suo piacere ed interesse (esempio, l’agricoltura), non è facile definire una “sostenibilità” compatibile con lo sviluppo. E chi vuole semplificare il problema lo risolve, banalmente, invocando un limite allo sviluppo stesso senza valutare l’impoverimento conseguente. In sintesi, un caos sul piano logico e politico. Ed il vertice di Rio ne fu, infatti, specchio. Ma stabilì il principio che comunque se ne doveva parlare tutti insieme. Anche il trattato globale sull’ambiente di Kyoto (1997), ancora negoziato aperto e contrastato, non produsse risultati concreti e aumentò la confusione tecnica. Ma a ben vedere si nota un pur lento processo  in cui le nazioni e la ricerca cominciano ad imparare a dialogare grazie a questi tentativi di generare dei forum globali. Quindi suggerirei di non valutare il vertice di Johannesburg in base a risultati concreti ed immediati, ma come tappa educativa di un lungo viaggio verso la formazione di una comunità cooperativa globale. Che secondo me, pian pianino, emergerà nonostante le fumosità delle singole stazioni nel percorso.

Tratteremo in seguito i temi di dettaglio, in particolare quelli che dividono americani ed europei, perché qui vorrei sottolineare la realtà del dove siamo nel processo di formazione di un linguaggio cooperativo globale: dobbiamo ancora imparare a dialogare tutti insieme, solo il fatto di trovarsi in unico forum mondiale è già segno di ottimismo, pur aula disordinata. 

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