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Carlo A. Pelanda
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2017-7-4

4/7/2017

La protezione rigida del lavoro lo distrugge

I dati Istat che indicano un aumento della disoccupazione mostrano con chiarezza il fallimento della riforma renziana del lavoro. Gli incentivi fiscali temporanei dati da questa norma per favorire le assunzioni a tempo indeterminato e i “voucher” hanno dato per qualche tempo l’impressione, anche statistica, di poter produrre effetti positivi. Quando sono stati tolti, la realtà è tornata a manifestarsi: il modello di protezionismo sindacale e sociale distrugge lavoro invece di crearlo. Il significato del dato va ben oltre: la crisi del modello di protezionismo sindacale per eccesso di rigidità impone una sua profonda e urgente revisione. Ma non possiamo chiedere alle sinistre più realismo e conseguente flessibilità perché la loro esistenza si basa su un fondamento rivendicazionista astratto: redistribuire o garantire ricchezza indipendentemente dal suo processo di creazione. Tocca quindi alle destre assumere la responsabilità di trovare un modo migliore e non illusionistico per armonizzare creazione e diffusione sociale della ricchezza, cioè tutele e libertà.
Ma anche a destra ci sono problemi. Quella statalista-nazionalista è tanto incline al protezionismo sociale quanto lo è quella comunista. Quella centrista, con modello di “economia sociale di mercato”, offre garanzie economiche solo un po’ meno fiscalmente pesanti senza però sostituire il modello disastroso di sinistra. L’alternativa è offerta dalle destre liberali, per altro minoritarie nelle democrazie europee, che prescrivono meno Stato e più mercato, cioè il trasferimento della responsabilità per i destini economici degli individui dal sistema agli individui stessi. Tale visione, tuttavia, trova poco consenso perché la gran massa dei votanti qualche garanzia la vuole. Fino a che il complesso delle destre non riuscirà a elaborare nuove garanzie, la sua offerta politica ricalcherà, con poche differenze, quella di sinistra oppure non avrà consenso sufficiente. In tutte le democrazie la maggioranza degli elettori vuole i benefici del libero mercato concorrenziale, ma non eccessi di fatica/ansia per ottenerli. Questo è il dato di realtà antropologica che deve ispirare una revisione rassicurante del pensiero liberale/liberista, portandolo dal prescrivere un minimo di garanzie alla generazione di nuove che favoriscano la partecipazione soddisfacente di tutti al mercato. Io, liberista, sento questa responsabilità e dagli anni ’90 cerco di disegnare un “welfare di investimento” che sostituisca quello socialistoide depressivo, basato non su meno garanzie, ma su nuove garanzie attive, dirette e indirette, di investimento erogate ai singoli individui – creazione del loro valore di mercato attraverso formazione iniziale e continua intensive e per tutti – affinché abbiano meno bisogno di protezioni durante la vita lavorativa (Cfr: Il nuovo Progresso, Angeli, 2012). I liberali classici mi hanno accusato di non essere un purista mentre, paradossalmente, nella sinistra pensante hanno annotato quanto proponevo per combatterlo in quanto pericoloso nemico “sostitutore”. Comunque io continuo, sperando con questo richiamo di sollecitare altri a integrare la teoria del liberalismo economico con nuove garanzie compatibili, smettendo di invocare l’assenza di garanzie stesse come ricetta unica per la ricchezza: il capitalismo di massa in un’economia tecnologica richiede investimenti formativi e sostegni per ogni individuo e non solo una, per altro sacrosanta, minimizzazione delle tasse e degli apparati burocratici.
Ma il problema della disoccupazione e del basso tasso di occupazione in Italia impone azioni immediate e non l’attesa di un cambio del macromodello che, nel migliore dei casi, richiederebbe tempi lunghi di applicazione sostitutiva. Fino alle elezioni del 2018, con questo governo, c’è poco da sperare. I partiti del centrodestra, tuttavia, potrebbero iniziare a concordare misure che almeno riducano le storture del modello corrente, che non riguardano solo le barriere di accesso al lavoro, ma anche l’entità insufficiente dei salari dei dipendenti. Suggerisco, tenendo conto pragmaticamente del conservatorismo protezionista di alcune destre, la convergenza verso i seguenti punti, sperando in una futura maggioranza parlamentare che li realizzi: a) facoltà più ampia di contratti a tempo determinato rinnovabili tra azienda e lavoratori dotati di partita Iva, compresi i pensionati, senza iscrizione al ruolo di dipendenti; b) libertà delle aziende di fornire premi salariali ai dipendenti in sede di contrattazione aziendale, in deroga a qualsiasi contratto nazionale, considerando che le imprese migliori hanno interesse a fidelizzare i collaboratori già formati; c) detassazione, oltre che del “cuneo” fiscale, anche delle spese di (ri)formazione e alfabetizzazione tecnologica del personale, considerando che le nuove tecnologie disintermediano solo gli incompetenti e non chi è istruito nell’usarle; d) piattaforma elettronica nazionale che incroci con efficienza domanda e offerta di lavoro. Una tale flessibilizzazione delle rigidità attuali potrebbe aumentare il numero di chi lavora, portare la disoccupazione verso una percentuale minore dell’11,3% odierno, anche assumendo una crescita modesta del Pil, e intanto aumentare per alcuni il reddito. Dopo questa flessibilizzazione del vecchio modello, poi, sarà più facile sostituirlo con uno nuovo migliore e innovativo.

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