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Carlo A. Pelanda
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2002-3-18

18/3/2002

La tappa di Barcellona nel Gran Prix d’Europa

Molti analisti hanno osservato i lavori del summit europeo di Barcellona con in mente l’agenda di quello di Lisbona (2000). Nella capitale lusitana, infatti, fu preso l’impegno esplicito di rendere entro il 2010 l’Unione Europea l’area economicamente più forte del pianeta, eguagliando e superando l’America. Dare attenzione a tale dimensione dello scenario non è un gioco predittivo astratto. Se l’Unione dimostrerà nel futuro più ravvicinato di compiere dei passi intermedi che facciano intendere il raggiungimento di questo buon esito competitivo, allora il mercato lo sconterà in anticipo. E ciò favorirà, per esempio, nuovi investimenti che avranno la capacità di amplificare ed accelerare lo sviluppo europeo, dappertutto, entro un effetto ottimismo generalizzato. Per questo l’”analisi delle agende” nella dimensione europea è un informazione di particolare rilevanza. Inoltre, ed è il punto principale,  il concetto di “agenda” è lo strumento principale del processo integrativo. Questo non avviene per via imperiale, cioè per azione espansiva di una nazione dominate, ma per consenso da parte di nazioni che decidono di conferire parte della propria sovranità ad un sistema comune. Quindi il rispetto delle agende, oltre che la loro fattibilità in sede di definizione, è il pilastro della costruzione europea. Ciò spiega il perché si sia rispettata al minuto l’agenda di realizzazione dell’euro e perché dovrà essere mantenuta ad ogni costo quella della parità dei bilanci pubblici entro il 2004 (Patto di stabilità) nonostante i tempi non fossero maturi per il primo e le forzature sgradevoli che comporta la seconda. L’Europa è un “calendario”. In tale ottica, appunto, Barcellona era ed è vista come un primo luogo di esame per capire se rispetteremo i tempi del 2010, e con essi l’obiettivo, oppure no.

Quale tabella di marcia lascia intendere il “calendario di Barcellona”? Il suo punto più critico riguardava i tempi delle liberalizzazioni. Sperare di fare l’euroboom entro il 2010 implica il realizzare pienamente per quella data un unico mercato continentale sia basato sull’efficienza (data dal maggior grado di libertà dell’economia) sia privo di protezionismi nazionali. Il “caso” era dato dalla questione della liberalizzazione dell’energia rifiutata in modo categorico da Parigi, particolarmente in un momento di campagna elettorale per le presidenziali. Ci si aspettava un ulteriore rimando. Ma il fronte delle nazioni più liberalizzanti (Italia, Spagna e Regno Unito) è riuscito ad imporre almeno un compromesso. Non è apparsa gran cosa. Si dovrà aspettare il 2004 (con un anticipo parziale nel 2003) per smuovere il settore. Ma, in realtà, vedere la colbertiana (dirigista) Francia dover mollare almeno parzialmente il proprio interesse nazionale sotto la pressione di uno europeo più vasto lo ritengo un evento storico, una semina che lascia ben sperare per fioriture in tanti altri settori in diverse nazioni, soprattutto la Germania. In questo paese l’acquisizione di imprese (anche quotate) è ostacolata da regole consociative che bloccano “lo straniero”. Il sistema delle Casse di risparmio non segue le regole della concorrenza europea. Ecc. In ogni Paese ci sono regimi protezionistici da abbattere, ma Francia e Germania sono quelli più densi di ostacoli alla liberalizzazione e, quindi, europeizzazione del mercato. Quanto deciso a Barcellona è un segnale che potrebbero essere superati e l’agenda 2010 rispettata.

Altri seggni sono altrettanto buoni. Per esempio, non sarà possibile costruire il mercato unico senza rendere omogenee le regole di quello dei capitali finanziari. A Barcellona è stato preso l’impegno di realizzarle entro il 2005. Non male.

La lista potrebbe essere più lunga e, nel complesso, rende abbastanza elevata la probabilità di rispettare il calendario detto sopra. Ma ci manca ancora il dato più rilevante: quale sarà l’opposizione politica e sindacale al processo di liberalizzazione europea e quanto tempo potrà far perdere. Il problema è che in ogni liberalizzazione, a fronte del beneficio complessivo e per i più, si creano degli svantaggi per chi opera entro settori protetti. Inoltre aumenta il grado di concorrenza e ciò mette in difficoltà chi è meno efficiente di suo o opera in territori sistemicamente poco competitivi (cosa che impone all’Italia, per esempio, una pressione formidabile di modernizzazione veloce per non soccombere). Quando si discute in ambienti specialistici su questo tema vi sono due sensazioni, La prima è che proprio la lunghezza del calendario (2010, un’eternità dal 2002) incorpori la consapevolezza che la liberalizzazione europea non potrà essere fatta in tempi e modi aggressivi. E che si manterrà la specificità del modello sociale-economico continentale che si caratterizza per un mix tra garanzie di protezione sociale e di liberismo. L’idea, infatti, è quella di spostare l’equilibrio un po’ più verso il secondo, perché lo sbilanciamento sul lato del primo ha prodotto impoverimento e poca modernizzazione, ma senza abbandonare le tutele. Pare saggio e realistico. Ma la seconda sensazione e che i sindacati e le sinistre, nonostante la prudenza garantista detta, non ci vogliano stare, particolarmente dove sono più organizzati, in Francia, Germania (l’area più delicata) ed Italia. Sarà purtroppo inevitabile un momento di scontro e la specificazione dello scenario deve essere rimandata fino a quando non sapremo se avranno vinto i modernizzanti o i socialconservatori. 

(c) 2002 Carlo Pelanda
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