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Carlo A. Pelanda
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2001-11-26

26/11/2001

La crisi tedesca è strutturale e non passeggera

Caput Europae, Germania capitale dell’Europa. Me lo scrisse in latino un caro ed influente collega economista tedesco nei primi anni ’90. Non spaventarti, aggiunse (auto)ironico, non sarà l’ennesimo Reich. Questa volta la modernità e vastità dell’economia tedesca sarà locomotiva per il benessere di tutti gli europei. Già a quei tempi fui scettico, per la parte economica, e non resistetti dal dirgli – battuta inelegante, lo ammetto – che senza riforme totali e urgenti la Germania sarebbe diventata la causa di un’Europa Kaputt, un buco nero che distrugge ricchezza. Mio ospite in questi giorni abbiamo valutato insieme lo scenario della crisi tedesca.

Tecnicamente, la Germania è in recessione. Da sola pesa per quasi il 30% di tutto il Pil dell’eurozona e, per effetto scala, ne influenza pesantemente gli andamenti in su o in giù. La crescita del Pil è stata negativa per due trimestri successivi, il secondo ed il terzo. Per il quarto le prospettive sono nere. I numeri di caduta del Pil non sono impressionanti, piccoli decimali in meno, ma quelli della disoccupazione sì. La coalizione tra socialdemocratici e verdi guidata da Schroeder  promise, nel 1998, di ridurli a 3 milioni e mezzo. Sono tornati a 4 e a percentuali di senza lavoro che indicano un male veramente grave nel sistema economico (l’America, arrivata al picco del ciclo recessivo in questi giorni, non supererà il 6% di disoccupati, tra l’altro solo temporanei). Primo punto critico da chiarire: la recessione tedesca dipende principalmente dal rallentamento del ciclo internazionale, peggiorato dagli eventi innescati dall’attentato dell’11 settembre, e da altri fattori modificabili o è strutturale, quindi non risolvibile senza cambiamenti totali? La Germania dipende molto dall’export (circa il 13% della sua ricchezza nazionale) e, in particolare, da quanto assorbe il mercato interno statunitense. Ma ciò spiega solo la metà della tendenza recessiva. Infatti anche l’Italia è molto sensibile agli andamenti globali e americani, ma l’impatto del rallentamento è stato, pur pesante (finiremo l’anno con una crescita dell’1,7% circa contro il quasi due e mezzo stimato dal governo nell’ultima revisione), sostanzialmente minore. Quindi l’ipotesi più probabile è che il corpo economico tedesco abbia la cancrena, non solo la polmonite. Ma se è così, come si spiegano allora i buoni risultati tedeschi del recente passato? E’ stato fatto un trucco. Invece di dare più efficienza al mercato interno il governo ha “premuto” per svalutare l’euro in modo tale da compensare con più esportazioni l’incapacità di rilanciare i consumi e la produttività interni. Quando l’America tirava, alcuni settori dell’industria tedesca sono andati in boom. Ma, tipico di questo metodo, non hanno assunto di più e, soprattutto, non si è creata nuova industria né questa è stata sollevata dai pesi di protezionismo sociale che la rendono inefficiente. Così quando l’effetto America (dal 1992 al 2000) si è ridotto è venuto fuori il bubbone di un sistema economico tedesco incancrenito perché irriformato e prigioniero di un doppio modello sbagliato: (a) quello classico “renano”, più garantista in economia perfino di quello quasi socialista italiano e simile a quello di finanza opaca giapponese (intreccio tra banche ed imprese); (b) il governo di sinistra non ha voluto o potuto far nulla per convincere i sindacati e gli elettori conservatori (del modello superassistenziale) a cambiare almeno qualcosina. Interessante è notare che il governo Schroeder ha tentato il tentabile, sulla carta, per porre un rimedio. Per esempio, l’annuncio della futura riforma fiscale va nella giusta direzione. Ma, appunto, è carta troppo futura. Nel presente l’economia oppressa da tasse peggiori delle nostre è asfittica ed i costi assistenziali aumentano – tra cui quelli per il sostegno dei Lander orientali, rivelatisi un buco endemico di proporzioni inattese – deprimendo la Germania e le prospettive intere dell’Europa e dell’euro. Infatti la Germania, in misura maggiore di Francia ed Italia pur in affanno, farà una fatica immensa a rispettare il Patto di stabilità che regge la moneta unica. Dobbiamo preoccuparci lì e da noi? Molto, condivide il mio collega. Ma esattamente quanto?

Il punto riguarda i tempi della liberalizzazione interna in Germania. Non si può sperare in una modifica veloce del modello renano né tantomeno un rapido sviluppo dell’est ex-DDR, ma se si toglie almeno il secondo errore detto sopra, allora c’è una buona probabilità che gli effetti del primo vengano moderati e, nel tempo, ridotti. Tale considerazione di sintesi ci porta ad osservare le prossime elezioni tedesche nell’autunno del 2002. Se vinceranno i centristi (Cdu-Csu), moderatamente liberalizzanti, possiamo aspettarci almeno uno scenario di sostenibilità senza buchi peggiori. Questo è il punto di sintesi dello scenario, ma dobbiamo aspettare gli esiti. E nel breve periodo? Non lo decidiamo in Europa, ma viene determinato in America. Quando la seconda ripartirà la prima è assettata – grazie alla pur sciagurata svalutazione dell’euro -  per far ripartire le esportazioni e così mascherare e bilanciare parzialmente l’inefficienza interna. Quindi non fasciamoci la testa. Ma certamente dovremo usarla di più per tirare fuori l’eurozona (e la povera America sfiancata da un dollaro troppo alto per nostra carenza) da questa situazione che a lungo andare può diventare veramente pericolosa.

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