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Carlo A. Pelanda
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2003-4-17

17/4/2003

La giusta formula

Penso sia ora di riconoscere esplicitamente a Bush ed ai tecnici a cui ha affidato responsabilità esecutive il rispetto e la credibilità che hanno dimostrato di sapersi meritare sul campo. Nella piccola - ma importantissima per il futuro dell’Occidente e della sua missione nel mondo - Italia tale riconoscimento non deve servire al tifo degli spettatori pro o contro l’America, la sinistra o la destra, ma per valutare meglio la speranza di realizzazione di un nuovo ordine globale. Tale è lo scopo dell’azione intrapresa dall’Amministrazione Bush. Teorizzata prima dell’11 settembre 2001 per evitare rischi di instabilità globale. Esercitata, nei fatti, dopo per riparare alle conseguenze di pericoli avveratisi perché non contenuti in precedenza. Ed è giusto esaminarla, pur per cenni essenziali, in base alla sua consistenza morale e tecnica in quanto noi siamo chiamati a parteciparvi. Il punto: l’Amministrazione Bush non è una banda di folli guerrafondai, come sostenuto dalla critica demonizzante da sinistra e dintorni, ma un gruppo di governo serio, dotato di visione e coraggio. Lasciatemelo argomentare.

Non è vero che l’azione in Iraq sia venuta bene per un colpo di fortuna che ha salvato un piano ed una conduzione avventurosi ed improvvisati (rivedetevi i nastri di Rai 3). Ha avuto successo perché mai nella storia un governo ha concentrato tanta conoscenza innovativa, forza e risorse economiche per far andare bene una cosa. Il che ci fornisce il primo, e più rilevante, indizio fattuale sulla cultura gestionale dell’Amministrazione Bush: definito lo scopo ordinativo si è dimostrata capace di organizzare i mezzi concreti ed adeguati per raggiungerne una prima tappa cruciale. Per apprezzare il valore di questa impostazione si pensi che l’Amministrazione Clinton (1992-2000) si era prefissa i medesimi fini, ma aveva mobilizzato mezzi inadeguati. In particolare, ha tentato di pacificare il mondo usando più carota che bastone. Anche per questo difetto del mediatore-pacificatore, ad esempio, Arafat respinse il piano di pace definitivo offerto con enorme coraggio dal leader israeliano laburista Ehud Barak. E a Clinton il palestinese disse (più o meno, ma il senso è esatto): se torno in Palestina con un accordo che implichi la fine della guerra per la distruzione totale di Israele, allora Saddam, Siria, Iran (e sauditi?) da cui dipendo per le risorse non me lo lascerebbero fare perché a loro, per utilità politica, interessa il conflitto perpetuo. E verrei ucciso all’istante dai movimenti guerriglieri che questi finanziano o perfino da qualcuno dei miei. Arafat negherà di aver detto queste parole. Ma le ha dette. Anche Clinton forse le negherebbe perché sarebbero la prova del fallimento di una strategia ordinatrice che non fornisce al pacificatore la giusta formula di equilibrio tra bastone e carota, tra dissuasione ed incentivo. L’Amministrazione Bush, appresa questa lezione ed altre del genere, ha ribilanciato la formula sul lato del bastone per eliminare (Saddam) o dissuadere credibilmente (Siria, Iran, ecc.) chi impedisce di far finire un conflitto che è il più pericoloso del mondo per il suo valore di mobilitazione simbolica delle masse islamiche. E la buona notizia è che ci sta riuscendo. Guerrafondai? No, è la giusta formula.

E pare efficace anche per l’effetto che sta avendo sulla Corea del Nord. Prima della liberazione dell’Irak i nordcoreani basavano la loro strategia sulla possibilità di dissuadere gli americani con armi nucleari per ottenere in cambio la durata del regime imperial-comunista e soldi. Quando hanno visto che l’America ha accettato il rischio di un conflitto difficile e quello dell’isolamento politico pur di tener fede ad una promessa ordinatrice, allora hanno capito che erano su una strada suicida. E hanno riaperto i negoziati, di corsa. Così come l’Iran, in fase di riarmo nucleare avanzato, sta dando segnali di voler costruire con gli Usa una reciproca comprensione. A seguito, appunto, dell’applicazione della "formula forte".

Ma questa contiene anche molta carota. Non dimentichiamoci che Bush, nel novembre 2002, chiese all’Onu di mostrare la sua serietà e la conseguente capacità di sanzionare chi violava le regole internazionali accettate. Con questo ha voluto dire che l’unilaterilasmo americano è una fiaba. L’America vuole un’organizzazione multilaterale come architettura che bilanci le relazioni internazionali (ha creato l’Onu nel 1944 proprio per questo). Ma la vuole efficace affinché non faccia la fine della Società delle nazioni alla cui impotenza seguì la Seconda guerra mondiale. Clinton, negli anni ’90, preferì il cedimento al multilateralismo strumentale, sperando con le buone di far funzionare l’Onu. Bush, invece, le ha dato una scossa aprendo così lo scenario per una sua riforma, non certo per la sua cancellazione. Cosa è più salutare, il bastone o la carota? Nessuno dei due singolarmente, ma un loro giusto mix. E questo è esattamente il fulcro della teoria ordinativa dell’Amministrazione Bush.

L’Italia ispirata da una dottrina pacificatrice deve decidere se tale formula sia giusta o meno. Secondo me i fatti e gli uomini che la stanno sperimentando nell’Amministrazione Bush hanno dimostrato, pur inizialmente, che può funzionare. E che potrà veramente aprire una Nuova era dove i muri cadranno, quello del Mediterraneo il più rilevante per noi, le statue dell’orrore spiantate. Ci saranno rischi, ma se anche noi daremo il nostro contributo serio ad un’Amministrazione che è seria, allora condividendoli li ridurremo per noi e per loro.

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