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Carlo A. Pelanda
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il%20Giornale

2002-5-24

24/5/2002

Giustizia civile inefficiente

E’ impensabile che l’Italia possa modernizzarsi e predisporsi alla riforma competitiva senza modificare profondamente la propria giustizia civile. Cause che durano anche dieci anni, diritto fallimentare che peggiora le situazioni invece di sanarle, diritto societario non ancora adeguato nonostante alcuni miglioramenti recenti, ecc. La lista è lunga, ma la si può semplificare con un dato facilmente verificabile: la qualità dei servizi giuridici che dovrebbero ordinare il processo economico in Italia è la peggiore di tutti gli altri Paesi comparabili. Un’analisi seria dovrebbe distinguere tra difetti delle leggi (modificabili dalla volontà politica) e quelli operativi della magistratura  (correggibili via riforma organizzativa di tale segmento burocratico). Ma prima di questi approfondimenti, anche per orientare gli specialisti che dovranno trattarli, vanno esplicitati con chiarezza i due obiettivi di fondo della riforma necessaria: (a) il cittadino, in particolare operatore economico, vuole regole realistiche, semplici, chiare e procedure veloci al minor costo possibile; (b) un buon diritto civile, sia sul piano dei contenuti sia dell’organizzazione che li applica, è il precursore essenziale della capacità di un territorio di attrarre capitale e di farlo crescere, quindi della competitività complessiva. Pare lapalissiano, ma il ribadirlo non lo é in quanto la realtà è lontanissima dai requisiti detti. Sono convinto che il governo abbia messo la questione in priorità, ma temo che si trovi di fronte ad una giungla inestricabile di inefficienze cumulate nei 40 anni di cattiva gestione precedente. Come dargli un “machete”? Intanto con l’esplicitazione del problema attraverso il linguaggio della strada e non quello delle corporazioni dei magistrati o del politichese che di solito ne monopolizzano e rendono astrusa la descrizione. Anche con l’intento di mostrare che l’emergenza della malagiustizia non riguarda solo il settore penale, note le cronache di quel disastro,  ma anche quello civile, con un grave, pur meno noto, impatto sull’economia.

Due esempi. Un debitore aveva torto marcio, ma l’avvocato lo ha illuso che ci fosse una chance. Il giudice di primo grado ha sbagliato clamorosamente la sentenza e l’illusione è continuata fino alla giusta e competente conclusione di ultimo grado, dopo tanti anni. Il debitore ha pagato spese legali enormi inutilmente. Il creditore, semplifico, non ha ricevuto il dovuto in tempo utile e la sua azienda è andata in crisi. Quanti altri casi del genere o simili? Temo parecchi e se l’ipotesi fosse confermata vi sarebbe l’evidenza di tre fatti da sanare: c’è un grave errore nelle procedure che non impongono limiti temporali stretti alle cause; una parte dei giudici non è  competente; ci vorrebbe un miglior controllo sul codice deontologico degli avvocati. Con questo sospetto si rischia di delegittimare, in particolare, la magistratura? Spiace, ma considerino gli interessati che evito qui di riportare le battute di alcuni giudici di ultimo grado – raccolte mentre mi documentavo per questo articolo – sui loro colleghi di primo e dintorni.  Il problema c’è, la gente ne dice ben di peggio perché lo prova sulla pelle. Ma il peggio del peggio lo si trova nell’area del diritto fallimentare. Un imprenditore prende un rischio in Russia, a metà degli anni ’90, e gli va male perché lì imbrogliato. L’impresa fallisce per stress finanziario. L’imprenditore aveva firmato fideiussioni per garantire i prestiti e perde il suo patrimonio personale che avrebbe potuto far recuperare, insieme a quello residuo dell’impresa, quasi il 50% del dovuto ai creditori. Ma la procedura fallimentare dopo anni è ancora aperta. Esito: le lungaggini hanno ridotto il valore con cui ripagare il debito ed i costi legali sono aumentati a dismisura. Poiché è molto bravo, l’imprenditore riesce a lavorare semiclandestinamente e a far lavorare gli altri in nuove attività, con grande successo. Ma è attorniato da legali che piazzano parcelle devastanti mentre chiede: quando riavrò la mia faccia, nome e dignità? I dati (presi da uno studio recente di  Pier Giuseppe Monateri) mostrano che una procedura fallimentare in Germania, Francia e Regno Unito si chiude tra i sei e gli otto mesi mentre in Italia ci vogliono mediamente sei anni, con picchi fino a nove. Ma la chicca è un’altra: si è calcolato che nei fallimenti il costo complessivo della procedura supera il denaro recuperato. Una follia, con la complicazione umana di determinare “fallimenti di vita” invece di sanare quelli tecnici e momentanei. Cancellata formalmente la pena di morte dal nostro ordinamento l’abbiamo reintrodotta in forma di esecuzione sommaria della “persona economica” attraverso l’inefficienza del diritto fallimentare.

Qui la priorità è il “machete” e non ho citato le parti buone del nostro sistema. Per esempio, poco noto, l’obbligo (diritto romano) di andare dal notaio a certificare gli atti riduce di molto il contenzioso legale successivo ed è un sistema  in tal senso più efficiente di quello statunitense e britannico che non lo prescrivono (Common Law). Va da se, poi, che non tutti i magistrati siano incompetenti e gli avvocati avvoltoi, anzi. Andrebbe anche sottolineata la mancanza di risorse disponibili ad una magistratura oberata dal superlavoro. Ma detto questo resta il fatto prevalente: la giustizia civile, da noi, è una pesantissima e spesso indecente tassa nascosta. Va tagliata.   

(c) 2002 Carlo Pelanda
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