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Carlo A. Pelanda
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2001-11-21

21/11/2001

La scomoda responsabilità

Il vento dell’11 settembre non ha cambiato il mondo, ma certamente ha dissolto le nebbie sul chi e come debba governarlo. Per un decennio c’è stata la massima confusione in materia. Ora sono chiari tre nuovi requisiti (a) non si possono più lasciare vuoti politici nel pianeta perché da lì possono nascere eventi con capacità di destabilizzazione globale; (b) bisogna trovare un giusto mix tra bastone (ordinamento) e carota (cooperazione) per colmarli; (c) come metodo di governo di un’alleanza che, pur inevitabilmente guidata dal potere americano, deve sia trovare nuovi soci sia basarsi su un loro maggiore attivismo stabilizzante. Questo ultimo criterio, in particolare, comporta che l’Italia sarà chiamata ad esportare sicurezza economica, oltre che militare, in modi più intensi ed estesi che nel passato. Ma, visto l’alto tasso di astrazione ed ambiguità rilevabile nei dibattiti correnti sui media, appare evidente che non siamo abituati a discutere concretamente ad un livello così impegnativo della nostra responsabilità nazionale. Ritengo utile imparare a farlo in fretta e qui ci provo a modo mio. 

Trovo prioritario un chiarimento interno. La prima parte è facile: il nostro interesse nazionale coincide con quello della stabilità del mercato globale perché da questa dipende la nostra ricchezza. La seconda, quella delle implicazioni di “missione”, è più difficile e forse per questo poco discussa nella sua formulazione concreta. Per essere parte attiva del mondo l’Italia deve, oltre che conferire risorse militari, crescere economicamente di più sia per rendere ricchi i Paesi poveri importandone più merci sia per aumentare il monte di risorse utile a capitalizzare direttamente i poverissimi. Cosa che richiede un forte cambiamento interno per realizzare la nostra aumentata responsabilità esterna: più rapida liberalizzazione economica, con enfasi maggiore sulla futurizzazione globalizzante e minore sui tradizionalismi, localismi e protezionismi vari che imbrigliano i nostri potenziali. Lasciatemi chiarire meglio il quadro. Al momento la dimensione economica delle politiche stabilizzanti viene oscurata dalla priorità sul lato del bastone. Ma presto questa si invertirà e richiederà il trovare una buona formula su quello della carota. E nuova. Nell’ultimo decennio si è pensato che lo sviluppo mondiale potesse procedere in maniera graduale e quindi tollerare senza grossi problemi molte sacche di sottosviluppo o conflitti irrisolti. In realtà ciò si è dimostrato non vero. Ormai il mondo è interconnesso al punto da trasferire le instabilità di un piccolo luogo al globo intero. Lo si è capito a suon di guerre e attentati e d’ora in poi sarà necessario intervenire il più presto possibile per sincronizzare il tutto e renderlo convergente verso uno sviluppo tale da non lasciare più vuoti. Il mio gruppo di ricerca (Globis) ha cercato di calcolare quanto costerà finanziare la stabilità nei Paesi centroasiatici, islamici, africani e sudamericani la cui povertà è substrato per violenze interne ed esterne destabilizzanti. Una prima stima indica circa 400 miliardi di euro, in dieci anni, per avviare lo sviluppo dove non c’è e per espanderlo dove è troppo lento. I Paesi ricchi, in teoria, avrebbero questi soldi, ma in pratica manca ancora la volontà di mobilitarli a questa scala. Anche perché le attuali istituzioni internazionali (Onu, Wb, Fmi, Wto) non sono organizzate per gestirla. Quindi c’è il rischio che, risolti i due o tre focolai di instabilità più vistosi (Afghanistan, Palestina, ecc.) il vuoto politico permanga nel resto, creando nuovi problemi futuri. Sarebbe il momento di cominciare a premere per soluzioni nuove e più forti ed il nostro ruolo del G8, nucleo forte del governo mondiale, non è poi così irrilevante. Per esempio: un fondo globale di compensazione che raccolga il capitale per l’aiuto diretto; che poi lo versi ad un fondo di intervento specifico per ciascun Paese povero in modo che la gestione delle risorse sia integrata e non frammentata, oltre che specializzata in relazione al contesto; nuovi prodotti finanziari “retrogarantiti” dai Paesi ricchi che veicolino il denaro privato a sostegno dello sviluppo di quelli poveri. Ma, si faccia un decimo di questo (probabile) o tutto (meno), l’effetto positivo maggiore dipenderà comunque dalla capitalizzazione indiretta dello sviluppo, cioè dalla capacità dei Paesi già ricchi di crescere di più e così trainare tutti gli altri. Ecco perché è importante chiarire che il nuovo impegno  per la stabilità mondiale richiede all’Italia anche una rapida riconfigurazione in direzione di una maggiore crescita ed apertura economiche. E una nostra azione affinché ciò avvenga nell’eurozona. Sapremo contribuire attivamente a queste due strategie di capitalizzazione diretta ed indiretta? Se la questione fosse solo nelle mani del governo sarei ottimista, ma i suoi comportamenti dipendono molto dal consenso interno. E qui lo sono meno. Sul piano dei requisiti liberalizzanti interni la nuova responsabilità non piacerebbe certamente ai sindacati né alla sinistra. Forse non entusiasmerebbe nemmeno le pur più moderate e rispettabili correnti  socialprotezioniste del centrodestra e dintorni nonché il tradizionalismo lirico dello stimato Marcello Veneziani (duelliamo?). Miseria, sembra lunga la lista di chi non sarebbe d’accordo. Fatemi sapere se ho sbagliato articolo o Paese.   

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