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Carlo A. Pelanda
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2001-7-1

1/7/2001

Istruzioni per governare la globalizzazione

Bisogna capire la globalizzazione prima di esaltarla o demonizzarla, soprattutto per governarla. Proviamoci.

 Cos’è? L’apertura dei mercati interni nazionali ai flussi internazionali di capitale, merci, informazione e persone. Quando è cominciata? Il mondo, tra il 1870  ed il 1914, fatte le debite proporzioni, era molto più globalizzato (economicamente) di quello odierno. La prima guerra interruppe i flussi. Dopo ripresero, ma a seguito della catastrofe finanziaria del 1929 le nazioni, per difendersi dalla crisi economica, chiusero i confini al commercio internazionale allo scopo di proteggere le loro economie. Sbagliarono politica. Il commercio mondiale crollò del 60% dal 1930 al 1933 e ciò aggravò le crisi nelle singole nazioni. Gli Stati intervennero con grandi programmi di spesa pubblica e nazionalizzarono i sistemi economici e finanziari, chiudendoli di fatto al mercato internazionale. Lì nacque lo Stato sociale interventista in economia, la “società chiusa”. Dopo il 1945 il commercio mondiale tornò ad aumentare in quella metà del pianeta che era dominata dalla Pax americana e dalla sua teoria: la “società aperta” sia culturalmente sia economicamente, e dove lo statalismo è ridotto ad un minimo, crea più ricchezza e, soprattutto, la diffonde meglio socialmente. Infatti quella parte di mondo governata da questo criterio (Usa, Europa occidentale, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, ecc.) conobbe già dagli anni 50 un grande sviluppo grazie all’internazionalizzazione del libero mercato. Favorito dal fatto che l’America, per mantenere il consenso all’alleanza antisovietica, accettò di importare le merci dai paesi alleati senza pretendere la simmetria commerciale. Così Giappone ed europei poterono mantenere pressoché irriformato il modello protezionista degli anni ‘30 e allo stesso tempo esportare moltissimo. Grazie a questa semiglobalizzazione, facilitata dall’assistenzialismo strategico, divennero ricchi, ma ciò creò una distorsione che ancora oggi pesa molto sull’efficienza dell’economia mondiale. L’economia interna statunitense fa da locomotiva a tute le altre anche per una efficienza diffusa dovuta a decenni di esperienza nell’adattarsi alla concorrenza internazionale. Europei e giapponesi restano meno moderni e trainanti – e più poveri - perché ancora troppo protezionisti Comunque il modello della “società aperta” trionfò su quello della “società chiusa”. La metà del mondo che era comunista implose per inefficienza e, dal 1989, (in Cina dal 1978), circa un miliardo e mezzo di persone passò di colpo dall’economia chiusa a quella aperta. Nello stesso periodo avvennero tre eventi in contemporanea che portarono altri tre miliardi di persone nella mondializzazione, generandola. 

 Il capitale mondializzato  fluì nei paesi sottosviluppati perchè nei secondi erano possibili crescite maggiori che in quelli già ricchi e ad economia matura. Tale diffusione mondiale del capitale fu favorita, oltre che dalla pressione politica esercitata dalla Pax Americana, anche da una tecnologia capace di trasferire con efficienza e rapidamente capitali, informazione, merci e persone in giro per il pianeta. Soprattutto, la popolazione mondiale aderì alla cultura materiale del capitalismo e ciò aumentò la domanda di beni di consumo e la propensione all’attivismo economico per avere un reddito utile a comprarseli. In un libro scritto con Paolo Savona (Sovranità e ricchezza, come riempire il vuoto politico della globalizzazione) ho definito questo processo come “globobang”: in meno di cinque anni (1988-1993) quasi cinque miliardi di persone passarono improvvisamente dalla società chiusa a quella aperta, unendosi al miliardo (paesi ricchi) che c’era già.

Bilancio dopo un decennio: la ricchezza media della popolazione mondiale è aumentata enormemente. La giustezza della teoria della “società aperta” è dimostrata dai fatti. Ma restano squilibri che rischiano di far fallire la globalizzazione o per instabilità o per dissenso. 

Di chi è la colpa? Non certo della globalizzazione, anche se la sua velocità ha spiazzato tutti. Sono i governi che non riescono ad adattare le società una volta chiuse o sottosviluppate al nuovo standard dell’economia globalizzata. Per esempio, molte nazioni hanno aperto i confin al capitale mondializzato senza    fare una riforma interna del sistema bancario. Esito: crisi finanziaria asiatica del 1998, o messicana del 1995. Peggio, molte nazioni si aprono alla concorrenza internazionale senza dare un assetto competitivo alla loro economia nazionale. Per esempio, l’Italia ha fatto così, evitando finora le riforme di efficienza, ed il capitale di investimento è uscito dal Paese. Esito: crisi competitiva. In generale, negli ultimi dieci anni tutte le nazioni, povere e ricche, hanno ceduto la sovranità allo standard globalizzante (concorrenza per efficienza) senza attuare quelle riforme interne necessarie per rendere tutta la popolazione capace di cogliere le opportunità dell’economia competitiva ed aperta. Gli squilibri, comunque inferiori al vantaggio complessivo, nascono esattamente da questo fatto.      

 Per correggerlo, le istituzioni internazionali dovrebbero creare un binario entro cui ogni nazione potesse negoziare un proprio modo e tempi per aprirsi alla globalizzazione. Quelle esistenti (disegnate nel 1944) non hanno tale missione. Si basano sulla vecchia teoria guida: una nazione deve aprirsi al mercato e ciò basta per modernizzarla. La teoria resta vera, ma dal 1945 al 1989 è stata bilanciata dall’assistenzialismo strategico americano detto sopra. Ora che tutto il mondo è aperto ai flussi del capitalismo globale, tale bilanciamento non funziona più. Il trovarne uno nuovo, in forma di nuove istituzioni mondiali che aiutino ogni nazione ad importare senza traumi lo standard globalizzante, è il nuovo compito che si indica con il termine: governare la globalizzazione. Ci si riuscirà, attraverso prove ed errori, ma certo non grazie alle stupidaggini urlate dagli antiglobalizzanti. 

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