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Carlo A. Pelanda
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2001-5-26

26/5/2001

L’eurodiessea finirà solo quando e se ci sarà una svolta politica in Germania e Francia

La settimana economica si apre con la continuazione dell’incertezza sull’economia americana. Ma nulla sembra smentire, per il momento, la previsione che alla fine dell’anno riprenderà. Alan Greenspan, presidente della Fed, qualche giorno fa ha trovato i motivi per sbilanciarsi in senso ottimistico: “le riduzioni sui tassi cominciano a funzionare”. Ma per noi il problema è che solo ora sta arrivando l’impatto negativo del rallentamento americano e globale, attraverso la caduta dell’export tedesco e relativo riverbero europeo. L’eurozona ha svoltato verso una tendenza recessiva, dopo qualche mese di illusione (qui criticata come irrealistica già dal dicembre scorso) che l’Europa potesse essere indipendente dal ciclo statunitense e globale. E la preoccupazione maggiore riguarda la tenuta dell’euro. Molti si chiedono fin dove potrà cadere e se si potrà rialzare. Vediamo. 

 Per rispondere seriamente dobbiamo, prima, analizzare i fattori di fondo che lo indeboliscono strutturalmente. Francia, Germania ed Italia sono il cuore geoeconomico dell’eurozona, la seconda in particolare, e ne costituiscono insieme circa il 70% del Pil complessivo.  Il fatto di essere governate, dal 1998 in poi, da sinistre irriformate, l’Italia se ne è appena liberata, è la causa principale della crisi strutturale della moneta unica. Questa non è valutazione politica, ma tecnica. Parigi e Berlino (e Roma) non hanno voluto fare alcuna riforma liberalizzante. Quindi l’unico modo per fare un po’ di crescita è stato quello di favorire la svalutazione dell’euro per pompare le esportazioni. Ancora nell’ottobre del 2000 Schroeder si dichiarava soddisfatto della debolezza dell’euro perché aiutava la crescita tedesca. Poi è stato zitto perché qualche assistente gli deve aver spiegato il disastro che così si stava producendo. Una crescita trainata solo dall’esterno dipende troppo dal ciclo globale; non fa occupazione sana perché questa è generata solo da un rialzo dei consumi ed investimenti interni, piatti se non si scongela il sistema; la depressione dell’euro ha aumentato a dismisura l’inflazione importata; che si è cumulata a quella prodotta dalla poca concorrenza tipica di un sistema protetto. La Bce si trova costretta a tenere i tassi più alti, e quindi restrittivi, del dovuto perché l’inflazione è troppa. Risultato: stagflazione  dell’eurozona e peggioramento continuo della moneta unica. Che si realizza perché i capitali, sfiduciati da questa situazione europea, migrano sul dollaro la cui economia sottostante, e gestione da parte dell’autorità monetaria, è ritenuta unanimemente più solida. A gennaio, esperti e governanti, per lo più di sinistra, annunciavano: sarà l’anno dell’euro, l’Europa sorpasserà l’America. In questi giorni la realtà è: appunto, l’euro nuovamente a picco, la Bce senza credibilità, le speranze di crescita europea per il 2001 violentemente dimezzate, l’inflazione difficile da controllare. In sintesi, fino a che il cuore dell’eurozona sarà governato dalle sinistre (irriformate) resterà in crisi endemica e soffrirà di un’economia distorta non gestibile monetariamente dalla Bce, per altro maldisegnata.

 Su queste pagine ho sempre sostenuto che i difetti di missione e gestione dell’euro da parte della Bce, pur gravi, erano inferiori per rilevanza a quelli dei governi di sinistra dell’eurozona. Mantengo questa posizione contraria ai tanti che sparano sull’autorità monetaria imputandole la debacle dell’euro per nascondere le responsabilità politiche. Tuttavia, Wim Duisenberg, l’ha fatta veramente grossa quando ha recentemente ridotto di un pelino  i tassi dopo aver detto per mesi che non poteva farlo per eccesso di inflazione. Totale crisi di credibilità personale e della Bce la cui mossa ha peggiorato la situazione dell’euro invece di migliorarla. A questo punto, in effetti, andrebbero cambiati gli uomini ed accelerata la ridefinizione della missione ed organizzazione dell’istituto monetario. Non è ormai possibile fargli recuperare la fiducia del mercato così come è.

 Lo so, i lettori vogliono risposte più precise (grazie per le tante e-mail al sito www.carlopelanda.com), in particolare i numeri. Tento di ipotizzarli. Il caso peggiore, a breve termine, nella situazione detta potrebbe in teoria far precipitare l’euro a 0,70 sul dollaro (ha chiuso la settimana sui 0,86, circa 2.250 lire). Ma in realtà attorno allo 0,85 scatta l’intervento concertato di tutte le banche centrali mondiali per evitare una caduta del genere. Non converrebbe a nessuno: gli americani resterebbero nella trappola di un dollaro troppo alto, come per altro lo sono già; così i giapponesi (yen) e gli inglesi (sterlina) notevolmente dipendenti dall’export nell’eurozona. Quindi l’euromoneta potrebbe fare dei picchi verso lo 0,80 per poi tendenzialmente stabilizzarsi verso lo 0,90, oscillando attorno a questa soglia. Ma questa previsione, che esclude la probabilità di una catastrofe, non deve rilassare. Comunque l’euro resterebbe troppo debole ed i capitali fuggirebbero. L’evento che lo tirerebbe su, riaggiustamento della Bce a parte, sarebbe squisitamente politico. Nel 2002 ci saranno le elezioni  in Germania e Francia. Se il mercato percepisse che è possibile una svolta politica liberalizzante, tipo quella italiana appena avvenuta, nel cuore dell’eurozona, certamente sconterebbe in anticipo tale prospettiva e, appunto, rafforzerebbe l’euromoneta. Il punto critico sta qui.   

 

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